Recensione “Cronaca di lei” di Alessandro Mari

Cronaca di lei di Alessandro Mari è una bella storia, sicuramente non felice, ma pervasa da un senso di angoscia che la rende ancora più reale. Inizia con la pioggia e un temporale, che quasi come a chiusura di un ciclo torna verso la fine del romanzo. E questo ritorno si applica anche al sentore di ansia, inquietudine e mistero che apre il libro e che si ripresenta nel finale. Tutta la narrazione gioca un po’ con queste sensazioni che però sono davvero predominanti solo all’inizio e a conclusione del romanzo.

Partirei dalla storia, o magari dal titolo, o dal fatto che questo libro l’ho trovato per caso e forse non l’avrei mai neanche letto se non mi fosse capitato davanti agli occhi. Vogliamo parlare anche della copertina? Creata appositamente e non senza fatica dall’illustratrice Francesca Zoni, che dopo vari tentativi è riuscita a rappresentare al meglio il fulcro del libro e la figura femminile protagonista. Quel rosso acceso, quella pulizia che lascia spazio solo all’essenziale e all’immaginazione. Una donna nuda, una mano che le tira i capelli o che glieli tiene semplicemente. Cosa vedete voi in quel disegno? Un atto sessuale o una violenza? Di cosa parlerà questo romanzo secondo voi? Vi lascio con la giusta curiosità. Non voglio raccontare gli eventi. La trama si può trovare facilmente ovunque, a me interessa concentrarmi sulle percezioni, sui significati.

Ora che l’ho letto (in realtà l’ho letto ormai mesi fa) posso dire che sono contenta di non essermelo fatto sfuggire. Anzi mi è proprio piaciuto averlo con me, starci a contatto, sentirlo al tatto, sfogliarlo. Non so come spiegarlo, ma si è creato un legame con questo libro, ho avvertito proprio un bisogno fisico di questo libro durante la lettura che ha occupato lo spazio delle mie riflessioni.

C’è chi l’ha definita una “favola nera” e capisco bene il perché. In un certo senso forse lo è. I personaggi sono tanti. Vengono narrate le vicende del pugile Milo Montero One Way, di sua sorella, nonché sua manager, Irene, e dello scrittore Leo Ruffo. Probabilmente però la protagonista è Lei, la ragazza, l’unica figura senza nome, che resta un mistero per il lettore e per tutti fin dalle prime pagine. Ragazza che entra a far parte della vita di Milo prima ancora che questa storia ci venga riportata e che ritorna da lui non si sa per quale motivo.

Particolarità della scrittura di Mari, oltre al linguaggio asciutto, lo stile crudo e serrato, è la mancanza di virgolette o altri segni di interpunzione per i dialoghi, come se l’autore avesse voluto liberare le parole e i pensieri espressi senza ostacolare il loro flusso. L’autore si serve anche di altri espedienti per dar voce ai suoi personaggi in maniera fluida e ancor più immediata, senza filtri, attraverso l’uso del discorso indiretto libero, così da riuscire ad amalgamare perfettamente le riflessioni e i pareri alla narrazione. Funziona bene anche il tempo verbale al presente, nonostante in certi passaggi risulti un po’ monotono e pesante, con frasi che a volte si riducono a liste di azioni senza dinamicità né importanza.

Perché per la ragazza non è stato scelto nessun nome? Penso che dobbiate scoprirlo voi, anche se l’autore in alcune interviste e presentazioni non ne ha fatto mistero, ma è giusto che ognuno si dia la sua risposta e provi a interpretare il significato del libro e delle scelte dell’autore in totale autonomia. Non ci sono soluzioni definitive né verità assolute. O almeno questo è quello che credo io e che ho percepito. Ci sono intuizioni, possibili spiegazioni, dubbi e poche certezze. Di certo Lei è un enigma per tutti ed è sicuramente un personaggio diverso dagli altri. Hanno tutti un nome e un’identità, anche le presenze secondarie, Lei invece bisogna scoprirla attraverso i suoi movimenti, le sue azioni, le sue decisioni. È posta su un piano diverso rispetto agli altri e comunica di più senza essere etichettata né definita in nessun modo. Per chi le sta intorno, per noi che la leggiamo e che la troviamo lì nera su bianco, Lei è difficile da capire ed è sfuggente, dotata di una «impenetrabilità mansueta», come dice Ruffo. È una studentessa, è giovane, è una modella, abbiamo poche certezze e poche informazioni su di lei, inversamente proporzionali all’impressione che ci fa lei di nascondere costantemente qualcosa. Pagina dopo pagina cresce la convinzione che ci siano chissà quali segreti che incombono su quello che fa e su quello che non dice, che pesano sulle sue fragili spalle e sul suo cuore inaccessibile agli altri. Ma le domande non riguardano soltanto la ragazza.

Cosa ci fanno insieme nella stessa storia uno scrittore e un pugile? Due mondi così diversi i loro, eppure si incontrano, si avvicinano, si intrecciano. Lui che deve tornare a gareggiare e a vincere, dopo una pausa dai ring per un’operazione all’occhio, e l’altro che viene ingaggiato per scrivere un libro con la biografia del campione. Uno scrittore però si sa, va al di là delle parole e di ciò che vede e studia ogni dettaglio della loro vita per capire qualcosa in più, per scoprire quello che loro tacciono.

I temi che emergono dalle profondità di questo testo sono tanti, eppure convergono quasi tutti nel destino comune degli uomini: l’infelicità, l’insoddisfazione dei personaggi che sono alla ricerca di qualcosa e inseguono ognuno a modo loro, alcuni senza neanche saperlo, vari obiettivi. Questa consapevolezza non è pesante, né troppo triste, ma fa tenerezza perché accomuna tutti senza differenze né discriminazioni.

Cronaca di lei è un testo perturbante ma intrigante che, pur volendo focalizzarsi su ciò che accade quasi come se si trattasse semplicemente di una cronaca, ha descrizioni davvero belle e poetiche, nonostante l’estremo realismo e la durezza di molte scene. L’autore è diretto e ci mostra il lato peggiore di tutto e tutti senza esitazioni. Se all’inizio il timore potrebbe essere quello di non vedere accadere granché, vi assicuro che poi la trama esplode e succede tutto! Anche ciò che non viene narrato.

Quando il quadro della situazione si completa, la storia si stabilizza, a un certo punto si inizia ad avere dei presentimenti, si comincia a capire che qualcosa sta per succedere, che qualcosa bolle in pentola ed è pronto a scoppiare da un momento all’altro.

C’è una sorta di ritornello che percorre tutta la narrazione ed è la domanda che si fanno ogni volta la ragazza e Milo. «Mi vedi?». E la loro è una richiesta di aiuto, di chiarezza, di amore. Riconosci chi sono e cosa sono? È un modo di tenersi ancorati alla realtà e sentirsi appartenere a qualcosa, a qualcuno. Un interrogativo che pesa ancora di più in questo libro in cui non sembrano conoscersi davvero i personaggi, uomini e donne che combattono i loro drammi e che tentano di nascondere la loro vera natura o semplicemente di tenerla al riparo.

«È il fatto di vedere, mette giù sul taccuino, vedere o non vedere la vita che ti viene addosso» e sembra questa frase, buttata lì quasi a caso da Ruffo, ad essere in realtà la chiave di tutto.

Recensione “Mai più così vicina” di Claudia Serrano

Qual è la cosa più difficile da fare quando ci si innamora? È ragionare con la testa. Quando qualcuno si insinua nel cuore, è quasi impossibile mantenere i piedi ben piantati a terra e capire cosa è giusto o sbagliato per noi. All’improvviso perdiamo la capacità di riconoscere anche l’ovvio. Non vogliamo vederla la realtà, il più delle volte. Perché fa male, perché è faticoso, perché ne proviamo vergogna. Tuttavia è proprio quella la fase più complessa, ma l’unica praticabile, e passa solo e soltanto dalla cruda verità. Non c’è altra via d’uscita.
Claudia Serrano lo sa, un po’ meno la protagonista del suo libro Mai più così vicina. Perché Antonia, una ragazza del sud che arriva a Milano carica di aspettative e con un unico grande sogno, perde di vista se stessa e i suoi obiettivi per colpa di «due occhi di un azzurro imbarazzante». L’editore Vittorio Solmani, il bello e impossibile della Milano che conta, con i suoi «riccioli brizzolati, la barba fintamente incolta, il profilo marmoreo» da cui lei avrebbe dovuto stare lontana, è l’uomo che le farà perdere la testa e il cuore.
L’inizio del romanzo è diretto, rapido, incisivo e conquista immediatamente. C’è subito lei, innamorata, forse troppo, ma rassegnata e sconfitta. Si percepisce dalle impressioni che ci lascia, dalle parole che usa per descrivere l’uomo che le dorme accanto, dalle riflessioni che fa per tenersi aggrappata a un qualcosa che non ha un nome e forse neanche un futuro.
La trama è presto detta: troviamo Antonia, ragazza pugliese speranzosa di conquistarsi un allegro posto nel mondo, che timida si avvicina a un ambiente che non le appartiene perché tutta quella superficialità e impertinenza non fanno parte del suo essere, che vuole scrivere un romanzo e si innamora di un uomo dell’editoria che la incanta con i suoi discorsi sui libri. Eppure la Serrano non risulta mai banale né scontata. Cosa succede ad Antonia? Potete immaginarlo. Vittorio è quel tipo di uomo lì, con cui tutte hanno avuto a che fare almeno una volta nella vita, se non nella loro quotidianità almeno nella finzione. L’uomo che non deve chiedere mai, che c’è quando vuole lui, a intermittenza, che vi fa toccare il cielo con un dito, ma che vi ignora subito dopo, che vi ammalia, che torna a stare sulle sue, che non vuole impegnarsi, perché per lui tutto si riduce a puro spirito di libertà senza vincoli né intralci. Perché lui le donne può permettersi di trattarle come vuole, perché in fondo è ferito dentro e non vuole più riaprire il cuore a nessuna, neanche alla donna più speciale del mondo, accontentandosi di portarla a letto e di viverla a singhiozzo tra un viaggetto in moto e una vacanza al mare. Si nasconde e non si dà, prende ma non troppo, e non ricambia, scappa e torna come un cane con la coda tra le gambe per elemosinare un po’ di attenzioni, con la scusa pronta del “non sono capace di amare, è più difficile di quanto pensi”. Non vorrei essere troppo di parte, solo perché sono una donna, ma questa è semplicemente la realtà delle cose. Spesso va così, e in questa storia non va diversamente purtroppo. Il tutto però, ci tengo a ribadirlo, è reso al meglio, condito bene con la giusta scelta di parole e immagini, grazie soprattutto alla forza dei pensieri e dei sentimenti della protagonista, le cui vicende si alternano alle pagine del libro che lei stessa sta scrivendo. Sì, perché accanto alla storia di Antonia c’è quella di Silvia la ragazzina del suo romanzo. Lei sembra una bambina, ma ha vent’anni e pur conservando la sua fanciullezza sa essere grande come ogni donna. Silvia ha gli occhi a mandorla, perché è nata sotto un mandorlo come le ha detto il suo papà. Il fatto che sia affetta da sindrome di Down è davvero solo un particolare, come dice lei stessa. Silvia non ha troppe preoccupazioni, ma è così di una semplicità commovente, con le sue idee ben chiare e un bisogno di trasmettere la sua incontenibile gioia. A un certo punto però anche lei conosce l’amore e i suoi equilibri vengono sconvolti da un aviatore.
Quello che più colpisce di questo libro e salta subito agli occhi, o almeno ai miei, è il ruolo centrale che viene dato alle città. Loro sembrano essere il fulcro del racconto, la personificazione dei sentimenti e degli umori di Antonia. E si vede in ogni pagina. Mi piacciono le descrizioni dei vari posti che lei abita, che visita, che vive. Parlano direttamente al cuore. La visione che l’autrice ha dei luoghi è molto efficace all’interno della trama perché umanizza le città, la sua penna ha il potere di renderle creature viventi.
C’è sempre un rapporto con la città. Milano è la prima a comparire, in una descrizione quasi secca eppure dolce. Milano per Antonia è semplicemente «emme: una storia che non si può raccontare per intero, un nodo non sbrogliato». È la città degli aperitivi e apericena, delle domeniche ecologiche, è la metropoli che non si ferma mai, che ti fa diventare grande troppo bruscamente, che non ha tempo né voglia di star dietro ai tuoi malumori, ma che sa vestirsi d’incanto e tingersi di bellezza quando meno te l’aspetti. Antonia si scopre diversa e pur sempre la stessa in questo suo altalenante rapporto di amore e odio con Milano, che si ripete all’infinito. C’è poi Venezia, che non ha bisogno di presentazioni – e Antonia sarebbe senz’altro d’accordo – languida città di facciate, che sembra non avere tridimensionalità. La pacifica città che vive d’acqua e che ti immerge in un’atmosfera da fiaba. C’è ovviamente Roma, pura magia in cui resti intrappolato per sempre. «In Roma rimani impigliato. A Roma ogni cosa ti chiama, ogni cosa è una rete»: Campo de’ Fiori, il rione Monti, il Tevere, l’isola Tiberina, Trastevere, Castel Sant’Angelo, San Pietro, il Gianicolo. Roma schiude le sue braccia e si lascia ammirare a qualunque ora del giorno e della notte, senza perdere il suo fascino imperituro. E intanto Antonia si lascia trasportare da quell’incantesimo, rapita dai monumenti, ma anche dai piccoli gesti della gente e dai loro frammenti di vita quotidiana, senza perdere di vista la sua ricerca della felicità.
Parlare dei luoghi in questo romanzo significa parlare delle stagioni, vuol dire svelare le emozioni che vivono i personaggi. L’estate esplode sui muri e sulle case, si riflette sul mare che diventa un bambino felice. Tutto prende forma grazie alle raffigurazioni di Claudia Serrano e alla sua scrittura scorrevole, ma densa di particolari, di metafore e similitudini. Ha un significato molto profondo ed evocativo il ruolo riservato alle città, che va oltre la semplice ambientazione del romanzo. E per me che sono un’appassionata, dai tempi della scuola e de Le città invisibili di Calvino, è un elemento di vitale importanza.
C’è inoltre una speciale attenzione riservata ai cinque sensi, l’autrice insiste molto sulle percezioni, come fa anche Silvia, che è capace di sentire le parole e vedere la musica.
Il flusso della narrazione viene interrotto dalle mail che Antonia scambia con Vittorio, in cui c’è un piacevole cambio di registro, e dal romanzo che la protagonista sta scrivendo. I dialoghi sono molto belli, raccontano sempre qualcosa in più.
La parte che mi ha meno convinta inizialmente è stata proprio quella del libro che scrive la protagonista. Romanzo nel romanzo. L’idea è bella, funziona e in un primo momento mi convinceva, ma sentivo anche che mi allontanava dalla storia principale, da Antonia, da Vittorio, dalle loro fughe “romantiche”, dai silenzi di lui, dal dolore di lei. Nonostante la dolcezza di Silvia e la poesia che porta sempre con sé, volevo leggerla più velocemente quella parte, perché ero troppo presa dalla macro storia e curiosa di scoprirne il seguito. Quando però il vecchio Amilcare a un certo punto, confidandosi con Silvia, ha iniziato a parlare di libri e di poesia, tutto è cambiato e sono stata completamente catturata. Con poche parole mi ha conquistata e mi ha aperto il cuore.
Lì ho capito che in realtà le storie non erano affatto distinte, che non si trattava di due binari separati, che l’una non interrompeva l’altra, ma che il racconto procedeva sullo stesso treno, alla scoperta dello stesso viaggio, verso tutte le possibili destinazioni: amore, solitudine, speranza, felicità, malinconia, delusione.
A metà tra un flusso di coscienza di Silvia e un dialogo fittizio tra l’autrice e la ragazzina, viene fuori questa perla:

«Cosa hai visto oggi? Le pareti della mia casa, il quadrato di cielo dalla finestra, il pezzo di mare che passa davanti alla spiaggia. Gli orizzonti di sempre. Dicono che ogni giorno possiamo cambiare la nostra vita. E forse è vero, ma non per tutti. Perché se la vita è stata fatta per essere cambiata ogni giorno, allora perché Dio ha creato alcuni di noi in grado di afferrare l’attimo, capovolgere il mondo, mollare tutto e scappare, e altri li ha inchiodati su quel pezzo di terra, su quella sedia a rotelle, accanto a quell’uomo? Dicono che la vita ci appartenga. Che bugia grossolana.»

Chi è Antonia? Chi è Vittorio? Chi è Silvia? Cosa si nasconde dietro ai loro nomi? Perché fin dalle prime pagine vediamo come sia determinante nominare le cose oltre alle persone, per dimostrare la loro esistenza.
Non voglio spoilerare nulla, ma questo libro merita di esser letto fino alla fine, perché quelle pagine conclusive sono il punto focale dell’intera storia, e sono davvero imperdibili. Claudia Serrano si supera con parole e immagini potenti ma delicate, che si staccano dal cuore e dall’immaginazione per farsi reali. Proprio nelle ultime battute, arriva la morale di questa non favola, per niente scontata né melensa, che scalda l’animo e lo avvolge in una premurosa carezza.
Un libro questo che l’autrice dedica e regala al nonno, e a tutti quelli che hanno bisogno di un po’ di compagnia e delicatezza per i periodi più impegnativi a cui far fronte.
Come chiedeva Silvia al vecchio Amilcare e come ci chiediamo tutti noi ogni volta:
«Ma finisce? Questa tristezza, dico, finisce?»
E non aggiungo altro.

Recensione “Sempre d’amore si tratta” di Susanna Casciani

Ho conosciuto Livia quando era solo una bambina, timida e sensibile, che a scuola usava il tempo della ricreazione per scrivere storie. Amava fantasticare, sì, ma era molto attenta a ogni minimo particolare. Era distratta, perché amava osservare gli altri, ma le piacevano tanto le persone, nonostante si tenesse a distanza di sicurezza da loro. Parlava poco, però non smetteva di sorridere. Io Livia l’ho capita subito, perché anch’io come lei ho sempre amato scrivere. Sapevo cosa provava, o almeno lo intuivo. Ci sono cuori che sono fatti di parole, secondo me, che non possono fare a meno di scrivere per sentirsi liberi. Per Livia era così, scrivendo si sentiva diversa, «diversa nel senso di speciale».

Aveva una sola grande amica, si chiamava Bianca. Erano inseparabili. Io sono certa che a lei raccontava tutti i suoi segreti, e chissà forse anche i suoi sogni. Livia lo sapeva quanto è importante aver cura dei propri desideri e io non avrei mai immaginato che un giorno avrebbe potuto perfino dimenticare questa virtù.

Sì, perché più forte della vita, più dirompente della fantasia purtroppo c’è la realtà, quella dura, sporca, gravosa e affilata che risucchia ogni briciolo di energia. Quando arriva qualcosa di gran lunga più grande di noi ad oscurare tutto, perdiamo le redini della nostra intera esistenza. Come si fa a restare ben saldi a terra in casi del genere? È quello che è successo alla mamma di Livia, Caterina. Il buio è sceso su di lei: attacchi di panico, di terrore, ansia, sconforto, nostalgia, incomprensione. Come spiegare questo stato d’animo? Come trovare l’origine di una tale malattia? Quando la tristezza non trova vie di fuga, ma lascia il posto a qualcosa di cupo e impenetrabile, tutto cade, ogni cosa si spegne e si fa pesante. Non esistono più logiche né buon senso, non reggono più le spiegazioni e il mondo intorno perde significato. Caterina ha iniziato a dimenticare tutto, la gioia, i piaceri, la luce, la leggerezza. Le mancava il respiro e le medicine non sono riuscite a riempire i vuoti. Inesorabile scherzo del destino è arrivato il male, quello che sarebbe diventato ben presto «una creatura crudele e orribile» per lei e per tutta la sua famiglia.

Livia ha condannato la sua esistenza consacrando tutte le sue forze e il suo entusiasmo per la vita alla ricerca di una soluzione che potesse salvare la sua mamma. Ha perso se stessa, correndo dietro l’ombra di Caterina sperando di riportarla a casa, nel suo corpo, nel suo sguardo, nel suo cuore prima che la depressione la prendesse in ostaggio. Avrei tanto voluto abbracciarla Livia e dirle che avrebbe trovato un posto nel suo cuore per qualcuno che non fosse necessariamente sua madre.

 

«Lei si prende tutto, tutto quello che ho. Non lo fa mica di proposito, o almeno credo, ma mi occupa tutto il cuore. Piango perché mi vorrei innamorare, ma ho paura di non esserne capace. Ho paura di doverle dare tutto l’amore che ho da parte. Piango perché non sono sicura che le basterà.»

 

Livia hai smesso di credere nell’amore, nel tuo amore, e le tue paure si sono trasformate in certezze sbagliate, in convinzioni amare che ti hanno solo allontanato da te e dagli altri. L’amore per tua mamma bastava, sarebbe bastato, ma purtroppo era lei a non bastare a se stessa, era lei a non potersi più accontentare di quella che con il tempo era diventata la sua tormentata quotidianità. Nessuno poteva annullare il peso di malumori sconosciuti che le hanno irrimediabilmente mangiato la sua parte migliore, offuscando i suoi pensieri e i suoi sorrisi. Non era colpa tua, non potevi capirlo e sei cresciuta con la rabbia e il rammarico di non aver fatto abbastanza, con il rimpianto che lei non avesse fatto abbastanza. Ma questo agli altri come puoi spiegarlo? Come potrai mai un giorno tentare di giustificarlo ai tuoi figli? Cosa ti è successo Livia? Perché hai smesso di prenderti cura di te e dei tuoi sogni?

Con questo libro son tornata indietro nel tempo, prima piccolina, poi adolescente, e ancora adulta. Ho visto davvero crescere Livia davanti a me, pagina dopo pagina, e subire una drammatica quanto inevitabile involuzione mentre cercava in tutti i modi di far guarire la sua mamma e di riportarla da lei. Per ricominciare a ridere insieme e per farsi ancora portare al mare come una volta.

Sempre d’amore si tratta fa questo, ti porta a Montecatini in quegli anni in cui Livia aveva iniziato a muovere piccoli grandi passi nella sua vita, ma in cui aveva dovuto fare subito i conti con un mostro spietato, una malattia inspiegabile che cancella i ricordi e la bellezza per decolorare la felicità, per imporre voragini e terrore.

Tra le pagine puoi vedere ogni dettaglio, puoi conoscere personalmente ogni personaggio della storia in presa diretta. C’è Paolo l’amico libraio di Livia, lui che l’aveva presa per mano affinché realizzasse i suoi sogni e potesse sentirsi libera. C’è la nonna Rosa che ha sempre creduto nella sua nipotina e non ha mai smesso di esortarla a combattere le sue battaglie, ma soprattutto a tenersi stretta i ricordi e i desideri. C’è il padre Edoardo, vuoto, spento, disorientato dalla malattia della moglie, dalle sue stesse debolezze, dalla forza che non ha avuto di tenere al riparo la figlia quando ormai stava perdendo la moglie. Sempre lui che riesce con il tempo a onorare la seconda opportunità che gli concede la vita. C’è la maestra Marina che aveva custodito le storie di Livia e aveva vigilato sul suo mondo spensierato. C’è il compagno di classe Lorenzo, da sempre segretamente innamorato di lei. C’è la migliore amica Bianca, che lotta contro la sua natura e soprattutto contro una madre che non vuole capirla, ma che non smette di proteggere Livia e di starle accanto sempre e comunque. C’è il primo fidanzato e l’amante di una notte, entrambi consapevoli di non riuscire ad accaparrarsi il cuore di Livia. C’è il compagno Alex che le darà tutto l’amore che lei non saprà gestire. C’è Caterina, la mamma, che smette di essere madre, ma che non potrà mai perdere quel legame così forte con Livia, nonostante la stanchezza che la sta distruggendo. Li ho visti tutti, comparse e punti fermi per lei. Li ho seguiti e accompagnati in questo viaggio, loro mi hanno ricordato quanto sia piena di colori e sofferenze la vita, bella e brutta da far male in tutte le sue infinite sfumature.

Il potere di questa storia è tutto racchiuso nelle parole di Susanna Casciani e nel suo tocco, in quella delicatezza che mette nel dipingere le emozioni e trasmetterle a chi legge. Perché lei ha un dono, quello di raccontare la realtà e l’amore come pochi sanno fare. Susanna è così, un po’ come la sua Livia, «è sincera in maniera quasi dolorosa, e questo la rende speciale, anche se lei non lo sa». E poi ovviamente il fascino di questo libro è lì, nella storia stessa, che non può non travolgere chi ne viene sfiorato.

È un libro triste, ma intenso, di quella tristezza che fa bene, perché ti stringe il cuore ma con una tenera nostalgia che riempie l’anima. Una storia che fa riflettere tanto, in silenzio, tra sorrisi dolci e amari, lacrime di commozione e quella morsa allo stomaco che ti fa dire: “Sì, nonostante tutto, la vita è proprio meravigliosa e non smette mai di sorprenderti”.

Questo libro parla d’amore, l’amore quello vero, l’amore triste, l’amore doloroso, l’amore forte, l’amore bello, parla di chi non sa di avere amore, di chi non sa come dimostrare amore, di chi crede di non possedere amore, per sé e per gli altri.

Descrivere questo libro significa un po’ raccontarsi. È un trovarsi tra le parole, nascosti tra le righe. Susanna è riuscita a fare questa magia, e personalmente non ne avevo dubbi. E a quanto ho visto è una reazione abbastanza comune tra chi lo ha letto e recensito.

È una storia scritta in prima persona, ma mai dalla protagonista. O almeno quasi mai. Perché lei parla attraverso il punto di vista di tutti quelli che l’hanno incontrata, conosciuta e amata. La sua storia è apparentemente raccontata solo da chi l’ha vissuta dall’esterno, anno dopo anno, capitolo dopo capitolo, eppure vive così potentemente nelle loro parole da essere palpabile anche per chi legge, come se fosse Livia stessa a rivelarla. La madre, il padre, la nonna, l’amica del cuore, il compagno di classe, la maestra, il ragazzo di una notte, il compagno. Tutti hanno in comune Livia. Tutti sentono il bisogno di raccontarla. L’esigenza di svelare la sua vita.

Sempre d’amore si tratta è una carezza sul cuore, nel momento in cui quel cuore ci fa più male. Voi lasciatevi trasportare da questo romanzo, tanto atteso e desiderato. Perché forse Susanna ha ragione. In fondo siamo tutti nati per essere felici, non trovate?

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