Recensione di “Tutte le volte che mi sono innamorato” di Marco Marsullo

Ho conosciuto Marco Marsullo prima come persona, attraverso i social e le sue dirette Instagram dai tempi del lockdown, e solo dopo come scrittore. Nonostante questo però, fin da subito ho avvertito una sorta di legame, un qualcosa che mi richiamava verso i suoi libri. È così che accade alle volte, anche se non hai letto nemmeno un libro di un autore senti che ti piacerà, che ha tanto da dirti e soprattutto da darti. In effetti così è stato. Come se lo conoscessi già. E ieri ho avuto la conferma con questo libro. Il primo suo romanzo che mi ha attirata a sé è stato proprio la sua ultima pubblicazione.

Tutte le volte che mi sono innamorato di Marco Marsullo mi ha agganciata dal primo capitolo e non ho avuto scampo. Ero lì a chiedermi chi stesse parlando e cosa mi stesse raccontando, dalla prima battuta, e ci sono finita dentro con tutte le scarpe.

La copertina riassume già le premesse, il punto di partenza sta proprio lì in quell’immagine colorata e fresca come la scrittura dell’autore: Cesare, la sua vespa bianca, il suo gatto e la ricerca di una relazione stabile e duratura. Lui che guarda e insegue l’amore, cercando la persona giusta, perfetta per lui, la donna della sua vita che sembra non arrivare mai né incrociare il suo cammino. Lui che si sente un passo indietro agli altri, rispetto ai suoi amici di infanzia, a quelli che alla sua età hanno già messo su famiglia e hanno carriere promettenti.

«Non ho mai guardato a lui con invidia, piuttosto come a un modello, estenuante il più delle volte. Rincorrere sfianca, è difficile stare dietro a una cometa; spesso mi chiedo quanta fede dovevano avere i Re Magi per seguirne una fino alla capanna di Gesù.»

Vi avverto a Cesare non potrete non affezionarvi. Io gli ho voluto bene dal primo capitolo. È un insegnante, ha 35 anni e sente il peso di tutte le scelte (e delle donne) sbagliate che lo hanno portato fin lì. A un certo punto della sua vita una serie di eventi fa scattare in lui qualcosa. E così si lancia in una sfida contro il tempo per trovare la compagna che ha sempre sognato o immaginato di avere accanto. Si può conquistare l’amore vero in sei mesi?

Questo libro è un rocambolesco viaggio tra le disavventure dei trentenni, gli appuntamenti tragi-comici figli delle app di incontri e le riflessioni di un ragazzo che vorrebbe soltanto essere ascoltato e compreso davvero al di là dei luoghi comuni e delle apparenze. Marco Marsullo racconta tutte le volte in cui il suo protagonista non si è innamorato e lo fa con un filo di malinconia e lucida ironia che ti fa sorridere e poi ti spiazza lasciandoti l’amaro in bocca per le verità che mette a nudo. In certi punti avrei voluto abbracciare forte Cesare. «La vita va vissuta, mica pensata così tanto Cesare.» Ecco, io mi scopro come lui, a rincorrere sempre i miei dubbi, le mie paturnie, le mie angosce, a rimuginare su tutto mentre il tempo passa e la vita mi lascia a piedi.

«L’amore non ti guarisce dalla solitudine.»

La solitudine è una condanna sociale dopo i trent’anni, un bollino marchiato a fuoco sulla fronte e un macigno che pesa nel petto nelle serate vuote, in cui sentirsi un po’ più tristi. Stare (da) soli ha i suoi vantaggi senza dubbio, ma chiunque sente il bisogno e la voglia di avere qualcuno a fianco con cui condividere la propria vita, spartirsi i guai della propria quotidianità e dare un senso alla felicità quando si palesa.

La felicità, sì: siamo un meccanismo perfetto costruito per essere potenzialmente felici senza mai davvero riuscirci. Sarà colpa di qualche bug o forse soltanto nostra.

Cosa siamo senza l’amore? E cosa siamo senza quella felicità che ci hanno sempre detto di cercare e guadagnarci a ogni costo?

Siamo noi, semplicemente. E ce lo dimentichiamo, come fa Cesare. Lui che cerca sempre le risposte negli altri e non sa ancora come interrogare sé stesso senza perdere di vista i veri obiettivi. È fatto di dubbi, pensieri, paranoie, malumori, rabbia, sete di divertimento, bisogno di affetto, come me, come tutti noi.

«E invece dietro i comportamenti di una persona c’è la somma di ogni passo fatto fino a quel giorno, di tutte le volte che è stato un no invece di un sì; si pensa che un uomo che non ha accanto una fidanzata di tutta la vita sia un ragazzino superficiale, uno che non sa prendersi un impegno, che non sa coltivare una relazione, uno a cui piace scopare in giro, cambiarne una a sera, sedurre come maledizione, un narcisista patologico. E invece dietro un uomo che non ha accanto una fidanzata di tutta la vita c’è il dolore di tutti i fallimenti precedenti. Un uomo che parla d’amore non viene mai creduto fino in fondo dalla donna che lo ascolta. “Ohi…” Gabriele mi tocca la mano. “Torni qui tra noi? È mezz’ora che non dici una parola.” Vedo Mariano, Lucio e Sandro che mi studiano. Sorrido. Intorno a me confusione, risate, strilli, pizze che si raffreddano e calici di vino svuotati. Sì, torno qui, ci torno sempre. Anche se alcune volte è più difficile.»

Questo libro parla di amicizia, prima ancora che di amore. Racconta il nostro rapporto con gli altri e con noi stessi, le nostre solitudini, le paure e le fragilità che decidiamo di nascondere perfino a noi stessi molto spesso, o che ci arrischiamo a condividere con chi ci conosce così bene anche quando restiamo chiusi nel nostro silenzio. Parla di noi trentenni allo sbaraglio in una società che non ci vede mai per ciò che siamo davvero e non ci vuole mai come aspiriamo a essere noi.

«Forse allora l’amicizia è questo: non tanto completarsi, quanto spronarsi ad andare oltre, a dipingere un nuovo quadro. Silvia non ha scelto di fare la maestra, lo è proprio di indole, e non perché spiega le cose o perché ha sempre le risposte giuste, ma perché te le sa insegnare, te le fa capire. Avere un’amica così è una salvezza quotidiana.»

Questo è un romanzo dolceamaro di grande umorismo e onestà, divertente ma anche molto riflessivo. Ho riso tanto fra queste pagine e mi sono ritrovata con lo stomaco contorto più volte. Marsullo è schietto, sincero, descrive l’amore al maschile e un mondo pieno di parole che spesso gli uomini non sanno dove mettere, come succede a Cesare. E io capisco bene questa sensazione di sovraffollamento nella testa e di emozioni che esplodono una dopo l’altra senza controllo, senza nessuna capacità di gestirle. Per questo ho subito empatizzato con il suo protagonista. La scrittura di Marco è frizzante e vera, parla di oggi, di noi, di sentimenti che in realtà ci accomunano tutti, uomini e donne, donne e uomini, bambini, ragazzi e anziani.

«Forse siamo l’ultima generazione che ha ricevuto in dono, nel DNA etico, l’obbligo tacito di sposarsi arrivati a una certa età. E chi dice che questa pressione sociale non l’avverte, l’avverte lo stesso. Anche nel doversi giustificare di continuo.»

Cesare impara a conoscersi a ogni fallimento sentimentale, a ogni diverbio con gli amici, a ogni passo fatto nella direzione opposta o contraria a quella che gli altri avrebbero prospettato e talvolta preferito per lui. Racconta il suo universo arrivando a una consapevolezza più matura che non avrebbe mai sperato di raggiungere forse: «Poi ho capito che niente importa, se non ciò che io penso di me.»

Non dico di più perché io non rivelo quasi nulla delle trame, dato che come ripeto sempre, io non le leggo mai per evitare spoiler e per non avere nessun tipo di aspettative. Per sapere di che parla un libro, per avere riferimenti spazio temporali più precisi internet ci viene in soccorso. A me interessa invece andare oltre. Parlare delle mie sensazioni, di quello che mi ha trasmesso un libro, di cosa mi ha regalato. Dei personaggi che mi ha presentato, di quello che loro mi hanno ricordato o detto di me. Perché sì, in fondo, pur avendo una storia totalmente diversa dal protagonista e dai suoi amici, io ho ritrovato tanto di me e dei miei coetanei in questo romanzo. Ho sentito nei miei 34 anni, attraverso le parole di Cesare, tutti i tormenti e i pensieri che mi hanno vista crescere e invecchiare. Mi sono quasi sempre trovata d’accordo con lui.

 «È commovente fino a che punto crediamo nell’amore. Fino a che punto crediamo – e continuiamo a credere anche oltre ogni evidenza – che sia la causa della salvezza, e della rovina, delle nostre esistenze.»

L’amore, questa entità misteriosa a volte così difficile da indagare, è la nostra croce e delizia, che rende tutto più complicato di quello che è, eppure sembra ruotare tutto intorno alla sua forza attrattiva e repulsiva al tempo stesso.

«Un amico non ha sempre bisogno della spiegazione matematica di un concetto. Un amico certe volte, in alcuni casi, in alcuni momenti, ha bisogno di te e basta. Ha bisogno che guardi per un istante il mondo con i suoi occhi, non sempre con i tuoi.»

E poi in questo libro ci sono (anche) loro, i bambini, che sono meravigliosi, con la loro ingenua spontaneità, le loro domande dirette e disarmanti, le loro risposte spiazzanti, con gli occhi grandi affamati di vita e di curiosità che sanno riempirti il cuore.

«Innamorarsi è sfiancante, perché conoscere una persona nuova toglie più energie di una corsa. Conoscere qualcuno è una maratona, senza nemmeno gli omini che ti passano i bicchieri d’acqua a bordo strada ogni due chilometri.»

In amore tutti pretendono di sapere qualcosa con assoluta certezza, tutti vogliono mettere il becco perché si sentono coinvolti, ma nessuno riesce mai a insegnarci davvero alcunché. E Cesare lo impara a sue spese, come tutti noi.

«Quant’è fragile l’amore, quante strade prende prima di arrivare a un punto. E poi, quando ci arriva, va tutto da un’altra parte.»

Sono contenta di aver letto l’amore secondo Marco Marsullo in una storia che mi ha tenuta incollata fino alla fine, con una conclusione che mi ha sorpresa troppo presto. L’ho divorato, non terminavo un libro in due giorni da anni ormai. Avevo proprio bisogno di questa boccata d’aria e in questo testo l’ho respirata con sollievo.

Non so se Cesare oggi sia innamorato o meno, se abbia trovato il ritmo giusto con la persona della sua vita (chi leggerà il libro capirà questo riferimento), io lo spero, ma soprattutto mi auguro davvero tanto che sia felice, felice come vuole essere lui, e non come vorrebbero gli altri, felice a modo suo. Glielo auguro sinceramente! Perché Cesare non è solo un personaggio inventato, non è una sagoma fittizia di una storia di fantasia, come in ogni romanzo scritto bene è sempre molto di più. E per questo motivo sono certa che questo mio messaggio arriverà al destinatario.

Recensione di “Guarda, là c’è anche il bene” di Diletta Giaquinto

«Ci sono ricordi che vorremmo non fossero nostri ricordi. E poi ci sono ricordi che vorremmo non fossero solo ricordi.»

Per Diletta Giaquinto, nel suo Guarda, là c’è anche il bene i ricordi sono delle chiavi, che aprono porte, che aprono cuori, e chiavi di lettura che aprono la mente mentre si legge il suo libro. Al suo testo associo parole come nostalgia, possibilità, strade (da percorrere), ma anche ricordi appunto, perché come sottolinea l’autrice loro fanno parte di noi e non del nostro presente. Lei scrive «Tutto quel che trovi alla fine dei ricordi» e leggendo questo titolo mi sono chiesta: io cosa scopro alla fine dei miei ricordi? Mi sono risposta mentalmente che vedo me ed è proprio quello che ho trovato scritto poco più sotto: «Cosa c’è alla fine dei ricordi? Cosa vedi quando smetti di ricordare? Te. Vedi te in questo momento. Vedi te come sei adesso. Vedi il tuo presente.»

Ecco questo libro per me è stato un dialogo con l’autrice e le sue parole. Un botta e risposta tra me e lei. 

Un altro termine che torna spesso è gabbia, ma proprio perché secondo me vuole essere un testo di liberazione. Io almeno l’ho visto e interpretato così.

Questo libro non dà risposte e non vuole farlo, ma ci propone delle domande e ci aiuta a trovare la nostra via. Ci sono risposte che tutti cerchiamo, quello che a volte ci sfugge è che prima dobbiamo trovare le domande giuste, quelle che ci aiuteranno a scovare le nostre risposte, le nostre soluzioni. Farci le domande corrette è utile perché smontano le nostre certezze e convinzioni per farci rimettere tutto in discussione o per indagarci nel profondo, alla ricerca di ciò che davvero sentiamo e/o desideriamo.

Mi è capitato di leggere una sola recensione negativa di Guarda, là c’è anche il bene in cui gli si contesta di essere un insieme di frasi fatte, per me non è così. E vi spiego perché in questo articolo. Non è forse frammentaria la vita? E la nostra mente anche? Che alla velocità della luce passa da un pensiero all’altro, da una connessione all’altra senza tregua. Per me questo libro ha un senso se glielo si vuole dare, se si è disposti a trovarlo insieme all’autrice, riga dopo riga. Cosa c’è di più bello di un confronto e di un dialogo con il libro che abbiamo davanti e con chi l’ha scritto? E qui nelle sue pagine questa magia può accadere. A me è successo. Ci sono tanti spunti su cui riflettere, che ci fanno sorridere o ci riportano a tempi bui che abbiamo attraversato, a ricordi speciali o dolci, alle nostre lacrime versate.

«Ricorda quel che vuoi, se è quel che vuoi, ma ricorda anche di esserci adesso. Perché i ricordi sono momenti finiti. Ma tu hai momenti che devono ancora iniziare.»

I concetti possono sembrare semplici, per alcuni ovvi magari, ma non sono scritti in maniera banale. Non sono così scontati. Non sono frasi fatte, anzi sono particolari, originali, personali, si vede che sono il frutto di una lenta maturazione e che sono nati con il tempo e l’esperienza. Sia nei titoli che nelle istantanee di parole che vengono sviluppate in ogni pagina emerge questo: abbiamo immagini di realtà in cui riusciamo perfino a specchiarci. 

Nella sua semplicità questo testo arriva dritto al punto ed è quello che conta. Io probabilmente certe frasi e alcuni pensieri li avrei scritti diversamente (scusate deformazione “professionale” se mi concedete questa licenza, perché da aspirante scrittrice faccio sempre molto caso a quello che leggo, allo stile, al modo in cui avrei scritto io le stesse cose), ma non importa, il fulcro è un altro. Bisogna seguire il flusso di Diletta, le sue domande, le sue osservazioni e tutto il percorso interiore che ha fatto lei e che condivide con noi, rendendoci partecipi. Ed è bellissimo. È come mettersi seduti comodi vicino a un’amica e ascoltarla.

«Ti è mai successo di ritrovarti immobile in mezzo al tempo che scorre? Le lancette si muovono come sempre e anche se tu ti muovi, anche se a te sembra di andare avanti, tu non avanzi. Perché sei lì immobile, sei tu a saperlo. Ma ora hai due opzioni: o metti fine a qualcosa che in realtà è già giunto alla fine oppure gli ridai vita.»

E io mi sento esattamente così, fin troppo spesso.

 «Oltre a pensare a dove vuoi andare, prova a capire se lì tu ci vuoi anche restare.»

Perché sì, noi vediamo sempre tutti i nostri obiettivi come delle destinazioni, dei punti di arrivo, ma non è così. Dovremmo pensare al dopo. Io desidero questa cosa, ma poi se un giorno l’avrò, la otterrò o la porterò a termine, che succederà? Non si esaurisce qui, anzi, magari è proprio l’inizio di un qualcosa di nuovo. L’autrice infatti si chiede subito dopo «Alla fine, c’è una fine?» Forse no. Ci sono sempre altri pensieri, altri dubbi, altri ostacoli da affrontare subito dopo. Un passo dietro l’altro, ma non si smette mai di inseguire, di aspettare, di lottare. A volte è un bene, altre volte no e tocca cambiare traguardo, prospettiva, strada.

È un invito ad ascoltare noi stessi, a capirci e a darci l’opportunità di fare le nostre scelte in nome della nostra felicità e libertà. 

«Con quali penne stai scrivendo adesso?

Scelgo con cura le penne con cui voglio scrivere.

Preferisco quelle scorrevoli. Molto scorrevoli.

Tanto da farmi sentire poco l’attrito con la carta.

Mi piace pensare ai miei obiettivi allo stesso modo.

Ci pensi se, invece, avessimo un obiettivo simile a una penna

con cui facciamo fatica a scrivere?»

Questa citazione delle penne mi è piaciuta molto, sarà perché amo scrivere, perché ho ripreso da poco la scrittura a mano e mi dà tante soddisfazioni anche se ormai la mia grafia è pessima ed è inesorabilmente peggiorata dopo gli anni delle scuole e dell’università. È difficile e costa fatica alla mano e al braccio e all’umore perché ci giudichiamo per la calligrafia, però nello stesso tempo scrivere a mano rallenta i pensieri e ci fa mettere le distanze tra noi e quello che proviamo in modo da analizzarlo lucidamente. Ecco la stessa cura che mettiamo nell’usare quelle penne dovremmo averla anche per noi stessi e i nostri obiettivi o desideri.

«[…] per i nostri obiettivi. Più aspettiamo, più in realtà li allontaniamo da noi.» io colpita e affondata quando ho letto queste parole. Mi accorgo tra una frase e l’altra che questo libro sta parlando con me, anche con me, proprio con me. E mi sento subito con le spalle al muro. Hai proprio ragione, cara Diletta.

Ho letto questo breve libro a spizzichi e bocconi, un po’ tutti i giorni, nei ritagli di tempo, a intermittenza, alternando lunghi intervalli. Perché ho sentito di gustarmelo di più così, sono convinta che richieda il suo tempo. Anche se sono poche righe alla volta sento che ha bisogno di silenzio e di pause, che necessita di riflessione, credo che la scelta migliore sia dosarlo e ragionarci per porci le domande e provare a cercare le risposte dentro di noi, per ascoltarci e capire se anche noi stiamo vivendo quella situazione o se invece ci comporteremmo in maniera diversa.

«[…] situazioni fuori dai programmi, sono comunque situazioni che non abbiamo scelto, sono comunque situazioni che ci portano via del tempo, ma sono comunque situazioni che, in fin dei conti, non sono poi così importanti. […] Certo, non ti rendono felice, ma non meritano neanche di renderti triste. Sono deviazioni in mezzo al nulla. Perciò non cambiano davvero il tuo cammino. E forse tu non dovresti farlo solo perché credi che ti portino da qualche parte. Non portano a nulla. Non ti portano nulla.»

E io ricorderò le “deviazioni in mezzo al nulla”, cercherò di non farle pesare e di non farmi angustiare dalla loro presenza. 

C’è un pezzo sulla pioggia, l’ombrello e il sole che mi è piaciuto tanto.

Io sono tipa da ombrello sempre in borsa anche nelle giornate terse, anche d’estate con 40 gradi all’ombra, anche se non minaccia pioggia. Perché può sempre piovere. È vero la prudenza non è mai troppa, ma la riflessione che fa Diletta mi ha fatto capire un’altra cosa. Che non è detto che pioverà tutte le volte. Certo la pioggia così come i brutti momenti può sempre arrivare, ma questo non significa che lo farà ogni volta. Ogni giorno in cui uscirò di casa. Non si tratta solo di prudenza quindi, io sono fifona e ansiosa, penso sempre al peggio. Questa è la verità. 

E ha ragione lei:

«Sai cosa accadde con il tempo però?

Accadde che la pioggia non mi sorprendeva più, ma mi

sorpresi a pensare che credevo che ogni giorno piovesse.

Sai, non sempre piove. A volte sì, altre c’è per davvero il sole.

Perciò, non dimenticarti che può accaderti il sole e che non

sempre ti serve l’ombrello.»

Anche io come Diletta credo nelle parole, nelle parole di cui ci circondiamo, in quelle che diciamo agli altri o a noi stessi.

«Ogni nostra parola crea degli spazi di vita.» Ed è bello pensare che le parole creino spazi. È così in effetti.

«Sarai in grado di camminare nell’oscurità per questo scopo:

per uscirci. Punta a riuscirci.»

E anche io voglio credere nei sorrisi “coraggiosi” come li chiama l’autrice, nel percorso che ognuno di noi può intraprendere, nel viaggio interiore che possiamo trovare il modo di realizzare su misura per noi. Che poi conoscerci sembra la cosa più ovvia, come mi ha ricordato questo testo, ma non lo è, non ci conosciamo davvero solo per il tempo che abbiamo passato insieme finora. L’importante è ascoltarsi, accogliersi, non cambiarsi a tutti i costi se non lo si vuole davvero e non snaturarsi.

«Quando i fiori sono ovunque

è perché tu hai guardato abbastanza da vederli fiorire.»

Questo libro mi ha fatto compagnia, mi ha aiutato a pensarmi altra, a vedere altrove, a riconsiderare un sacco di cose che diamo per scontate. 

Ho iniziato questo libro in un periodo abbastanza tranquillo, per quanto si possa definire così la vita, almeno all’apparenza, ma poi sono apparse nuvole cariche di pioggia e tempesta e da momento pacifico si è trasformato in caos e pesantezza. E di queste parole ho avuto tremendamente bisogno per provare ad aggrapparmi a qualcosa e a non farmi perseguitare dai pensieri.

Mi è piaciuto vedere l’evoluzione di questo percorso di sentimenti e parole disegnato dall’autrice (e ci sono davvero delle illustrazioni in alcune pagine del libro per chi vorrà o avrà modo di leggerlo) che senza esplicitarlo comunque sfuma dal sé all’altro. Perché non è solo un soffermarsi sulla propria persona, sui propri limiti e slanci, sui propri obiettivi e desideri, ma anche un rapportarsi con gli altri, un aiuto a relazionarsi non solo con sé stessi, ma anche con gli altri di conseguenza.

«Da oggi mi guardo per bene intorno.

Perché se posso capire troppo tardi per cosa i miei giorni

erano sorridenti, allora forse posso anche riconoscere in

anticipo ciò che un giorno potrebbe mancarmi.»

Ora la smetto altrimenti vi spoilero tutto il libro e invece desidero che resti una scoperta per voi, non voglio rivelare troppo.

Vi lascio con quella che ho scelto come mia frase talismano di questo libro, quella che mi ha sorriso e fatto sorridere a mia volta.

«Se ti senti triste non sentirti tristezza

C’è una piccola nota, però, che vorrei tu ricordassi.

Tu ti senti triste, ma non sei la tristezza.»

Non credo che lo consiglierei a tutti in maniera indistinta, non mi sento di dire a chiunque “leggilo vedrai, ti piacerà, o ci troverai questo e quest’altro” perché penso che questo testo debba chiamarvi. Se sentite che avete bisogno di un supporto, di una voce amica da ascoltare o da cui prendere ispirazione, di sciogliere dei nodi che siano dubbi o blocchi mentali, fatevi un regalo e leggetelo. Altrimenti se vi capita passate in libreria e sfogliatelo oppure andate a vedere i post nel profilo Instagram di Diletta Giaquinto, ne leggete qualcuno e vedete che effetto vi farà. Sentitevi liberi. Che magari vi serve anche il giusto momento per concedervelo o per apprezzarlo di più. A me ha scatenato questa reazione, ho letto alcune delle frasi sul profilo dell’autrice e ho capito che dovevo leggerla. Che dovevo scoprire cosa era racchiuso in quel libro. Ed eccomi qui. Grazie Diletta, grazie New book per avermi mandato l’ebook e grazie a chiunque sarà arrivato fin qui.

Guarda, là c’è anche il bene e lo dice la voce di chi non ci credeva più nel bene, quindi ascoltate Diletta perché la sua esperienza avrà molto da raccontare e insegnare.

PS. Nota di merito per la bibliografia finale curata dall’autrice ricchissima e dettagliata, con tanti spunti interessanti per approfondire testi sulla crescita personale e non solo, che ha letto lei nel tempo. 

Recensione “Un altro giro di clessidra” di Simone D’Adamio

E se esistesse una ricetta per la felicità? La risposta a questo interrogativo o desiderio, come lo si voglia chiamare, sembra essere tra le pagine di Un altro giro di clessidra, il romanzo d’esordio di Simone D’Adamio. Il quadro è il seguente: un medico con un misterioso siero e un esperimento non meglio precisato da portare avanti; un ragazzo liceale schivo e introverso che sembra vivere in un mondo tutto suo; un principe dei Druidi che dopo la morte del padre è costretto a fuggire e a nascondere la sua identità in vista di un salvifico ritorno. Tre storie in una, in parallelo, e al centro l’importanza delle parole, la continua ricerca della felicità e il bisogno di comprendere la propria reale natura. Distopia, romanzo di formazione, fantasy e/o fantascienza, tre generi diversi che però si intrecciano con disinvoltura, con una spontaneità matura e genuina, senza disturbare la lettura. Le domande sorgono numerose sin dal prologo e la curiosità di seguire il timido e stralunato Sergio nei suoi viaggi mentali, per svelare chi è e quali segreti nasconde, ci fa macinare le pagine fino a immergerci in un pianeta sconosciuto. È come passare dalla solita realtà alle immagini vivide di un videogioco interattivo tutto da scoprire. E così passiamo da una dimensione all’altra seguendo il ritmo fluido ma spedito dell’autore: all’inizio restiamo un po’ confusi per le informazioni che riceviamo e per le azioni che si susseguono davanti a noi, ma poi piano piano prendiamo confidenza con l’ambiente e con i personaggi. Tutti mirano a una verità che desideriamo conquistare anche noi, sebbene non sia così semplice come si potrebbe sperare.

Simone D’Adamio ha pubblicato il suo libro un anno e un mese fa, con la casa editrice Scatole Parlanti: il 7 giugno lo ha presentato per la prima volta a Roma. Dopo quasi dodici mesi dalla mia lettura voglio finalmente parlarvene perché merita attenzione. È un ottimo lavoro per un autore emergente che si affaccia sul mercato editoriale, pur presentando qualche difetto. Il linguaggio è ricercato, ma non risulta mai pesante, si denota infatti una dimestichezza nello stile elegante e comunque scorrevole. Emerge fin da subito la grande importanza data alla scelta delle parole, selezionate con cura e inserite con maestria nel testo. Una storia nata dalla penna di Simone ai tempi delle scuole superiori e che dopo anni di lavoro, rimaneggiamenti e correzioni è venuta fuori dal guscio pronta per essere esposta al pubblico.

Un altro giro di clessidra lascia al lettore un suo spazio di immaginazione, a volte sembra dargli anche troppa libertà, perché spesso abbiamo bisogno di tante risposte e le pagine non bastano. Il mondo fantasy che occupa gran parte del racconto è costruito con solide basi e dovizia di particolari, ma spesso appare abbozzato, non è approfondito come ci si aspetterebbe e i dubbi restano pure alla fine. Questo è un vero peccato, perché tutti avremmo voluto perderci in quei luoghi e restare lì il più a lungo possibile. La storia ha un grande potenziale, è scritta molto bene e scivola senza intoppi, a parte qualche pecca dovuta ad alcune ripetizioni o all’uso eccessivo delle virgole e dei puntini di sospensione che finiscono per spezzare la narrazione. È piacevole da leggere e tiene compagnia ponendo l’attenzione sui grandi quesiti che da sempre tormentano l’uomo.

«Una macroscopica assurdità, in quel secolo dove la memoria era una ferita aperta nelle menti degli uomini, votati a dimenticare, a cancellare il passato…»

Sergio cerca di chiudersi in se stesso dietro una rabbia adolescenziale che lo perseguita, con la paura di svelare i suoi segreti. Samuel Cook pensa di fare la stessa cosa restando fermo nella sua irrequieta freddezza, mascherando il suo passato e le sue origini. Dove li porterà questa turbolenta dualità? In un racconto serrato che passa con andamento repentino da un livello narrativo all’altro con molteplici colpi di scena, Sergio tenta di capire se il suo “potere” sia un dono o semplicemente una maledetta condanna. E dall’altra parte c’è Samuel che non sa come salvare la propria stirpe. In fin dei conti loro sono due facce diverse di un’unica medaglia, ma come riescono a connettersi e scambiarsi? Cosa farà vacillare le loro certezze? L’amore forse, i legami che li uniscono ad altre persone, la vita che costringe ognuno di noi a prendere strade sbagliate o fin troppo tortuose da attraversare. Cosa siamo disposti a sacrificare e fin dove siamo disposti a spingerci per un fine ultimo e per un bene universale?

«[…] sarebbe stato bello avere finalmente una famiglia normale. Di nuovo questo termine: normale. Un velo che segna un confine impalpabile, così effimero. Sergio era stufo di lambiccarsi il cervello, di chiedersi chi fosse, se un individuo come tanti o un prescelto asceta solitario. Era Sergio Zaghetti, e tanto bastava.»

La nostra mente è sottoposta costantemente a diverse sollecitazioni e spesso il confine tra i diversi mondi che popolano la psiche e la nostra quotidianità rischia di annullarsi. E allora ci si chiede: cosa è davvero reale e cosa invece non lo è? Domande che il lettore di questo libro sarà portato a farsi in più occasioni. I sogni non sono poi così lontani da noi e dalle nostre esistenze, piuttosto ce li portiamo dietro ogni giorno e non abitano soltanto il nostro sonno.

«Era intrappolato nella sua stessa mente, l’unica dimensione in cui riusciva ad avvicinarsi all’idea che aveva di felicità, priva di ogni condizionamento esterno. L’unica dimensione in cui poteva essere lui stesso l’autore della sceneggiatura e avere carta bianca. Tutto ciò che lo interessava avveniva nelle profondità del suo cervello, e sembrava non voler uscire da quel confortevole guscio. Per Sergio i sogni avevano un significato incomprensibile per la maggior parte delle persone. […] chi poteva comprendere una esistenza costruita esclusivamente all’interno della propria mente?»

Il mistero che pervade la vita di Sergio e di Samuel fonde in un’unica ampolla l’attività cerebrale e onirica insieme a fatti reali e tangibili. L’autore svela in questo modo come la scienza si inserisca alla perfezione in un contesto che sembra esserle molto distante. Dimostra come scienza e letteratura possano convivere, lui stesso ne è un esempio essendo un dermatologo e coltivando nello stesso tempo la passione per i libri e la propensione a scrivere e raccontare storie.

Il titolo Un altro giro di clessidra ha una sua spiegazione nel testo, che vi lascio scoprire da soli per non rovinarvi la sorpresa, oltre ad avere una valenza simbolica che esprime l’urgenza per tutti di avere una seconda possibilità nella vita. È un messaggio di speranza e di riflessione sul significato più profondo della felicità. Per trovarla ci resta solo la nostra immaginazione o la realtà può concedercene un assaggio? E quanto può essere vera questa felicità? Sergio e il suo alter ego Samuel confermano che la fuga non risolve i problemi o le situazioni complicate, chiariscono che non si può scappare per sempre né rifugiarsi nelle proprie comfort zone per trovare pace o per riappropriarsi di se stessi e stare bene. Non basta questo, bisogna innanzitutto capirsi e guardarsi dentro, prima di poter riuscire ad affrontare le circostanze esterne.

Un altro tassello fondamentale di questo libro è la passione per la musica che porta a un cambiamento del protagonista. La presenza della musica e di una band di ragazzi come lui a cui appartenere e con cui condividere dei momenti, dalle prove ai piccoli successi, innesta azioni e reazioni. È lei l’elemento che unisce e che accompagna i personaggi nelle occasioni più delicate e decisive delle loro vicende. La musica è sinonimo di adolescenza, di crescita e rinascita, di giovani cinici ma che hanno ancora bisogno di stupirsi e di credere in qualcosa. È un motore che può trascinare all’iniziativa e alla comprensione di sé e degli altri; specialmente in giovane età è capace di trasmettere validi insegnamenti di vita.

Prima di concludere devo ad ogni costo fare menzione della copertina. Un altro pezzo forte di questo romanzo, davvero bellissima al tatto e alla vista, capace di catapultare il lettore direttamente nella storia. Rende infatti molto bene l’atmosfera del libro e dà un ruolo di primo piano al Faro, elemento reale ispirato al faro di Punta Penna di Vasto, che è simbolo silenzioso della città, tanto caro ai suoi abitanti quanto ai turisti.

Se il prologo solletica la fantasia lasciando grandi interrogativi nel lettore, il finale non è da meno, giacché spiazza e apre la strada ad altrettante domande e interpretazioni. Un epilogo inaspettato che lascia in sospeso un sacco di dubbi e ne crea altri. Non resta che sgranare gli occhi e aspettare, potrebbe essere il pretesto perfetto per continuare il discorso in un seguito e sviscerare questa storia in un secondo volume. Chi lo sa, solo il tempo potrà dircelo. Nel frattempo ci si vede lì, al confine dei sogni, a destra del faro per un altro giro insieme.

Recensione “Di là dal muro” di Mario Caruso

Di là dal muro di Mario Caruso è un invito a guardare oltre, a sbirciare dietro a un muro che si fa sempre più grande e insormontabile, magari per provare a demolirlo. È un dialogo aperto con l’autore che non ci dice tutto o almeno non prova a spiegare i fatti né a interpretarli, ma si limita a raccontarli. Si comincia con la copertina raffigurante la Composizione VII di Kandinskij per poi proseguire con uno degli incipit tra i più enigmatici che mi siano capitati: è un inizio complesso e oscuro, che però non scoraggia, ma seleziona il lettore. Lascia una grande curiosità ed è una sorta di sfida che gli lancia, una domanda a bruciapelo che chiede: cosa potrà significare tutto questo per te? Dove ti porterà? Dove decide lui. Dalle prime frasi un po’ barocche, difficili e ridondanti ho avuto l’impressione di avere davanti un testo ostico e quasi arcaico, ma ogni cosa si è fatta più chiara senza che me ne accorgessi e mi sono ritrovata catapultata in una storia che mi pareva di conoscere da sempre. Questo aspetto mi ha convinto e mi è piaciuto molto perché è un romanzo per coraggiosi che si fa scoprire. Dopotutto il libro così come il lettore va conquistato.

Della trama non dirò granché, come sapete non mi piace svelare troppo, vi basti sapere che è la storia di Moreno Alaimo, un ragazzo in cerca di lavoro che dalla provincia di Bologna si è trasferito a Firenze alla fine degli anni Novanta per iniziare una vita indipendente nel mondo degli adulti. Mosso da una grande passione per l’arte, Moreno sfoga la sua sensibilità e il bisogno di aprirsi agli altri nella pittura, animando i fogli di tratti e colori.

«Una modesta personcina, semplice semplice, con una vocina sottile e cenni di balbuzie causati dall’insicurezza, un’esperienza lavorativa buttata lì, nero su bianco, che non tracciava nemmeno il cerchio dello zero in faccia a quel grande colosso industriale, davanti soprattutto all’autorità del direttore.»

Così viene presentato il protagonista del libro al colloquio con il direttore della grande azienda presso cui si è rivolto. Al di là dei sogni a cui si aggrappa, ha bisogno di mangiare e campare come tutti e non gli resta che lavorare in fabbrica, diventare un operaio e sentirsi realizzato.

Il lavoro nobilita l’uomo, o forse no? Mario Caruso smonta tutte le nostre convinzioni gettando sul fuoco, a fiamma molto alta, i temi più spinosi di sempre: il lavoro, la libertà, la parità di genere, la dignità, la paura, il coraggio, la ricerca di una propria identità, l’amore, il sacrificio. Tutto si mescola, si intreccia e riemerge dal fondo con il peso della colpa e di quell’amarezza che ci colpisce senza distinzioni. Moreno in quelle otto ore di sudore e vessazioni si trova davanti gli inganni della corruzione, i giochi di potere, la cattiveria dei piccoli come dei grandi, l’ipocrisia spietata, l’arrivismo, l’ambizione, l’indifferenza. Conosce una realtà lavorativa alienante che ci allontana da noi stessi e ci butta in pasto ai leoni. È difficile mantenersi in equilibrio, restare nell’ombra e non farsi toccare da questa macchia, dal marciume di certi ambienti. È facile invece riconoscersi in un ragazzo spaesato e intimorito che perde la propria innocenza tra le mura di un gigante dell’industria. Chi non ha mai provato sulla propria pelle la perversa pressione di capi e colleghi in una qualunque attività professionale? Chi non è rimasto invischiato nei complotti, nelle maldicenze, nelle battaglie degli altri rischiando di pagarne le conseguenze? Chi si è mantenuto intatto e pulito? Perché neanche dopo aver timbrato il cartellino e aver concluso la propria giornata si riesce a svincolarsi del tutto dal lavoro. È denigrante dovere qualcosa agli altri quando manca il rispetto e un rapporto di reciproca fiducia, solo per poter avere i soldi necessari a sopravvivere. Eppure è proprio quel che accade quasi sempre. Siamo solo pedine, marionette in balìa di chi è al di sopra di noi.

Smarrita la bellezza del mondo nell’oscurità della fabbrica, Moreno tenta di riappropriarsene nei suoi bozzetti e nella meraviglia della città in cui ora vive, quella Firenze che prende vita attraverso i suoi occhi e le sue mani.

«Lì posava un silenzio vero, nella sua più alta espressione di pace totale dei sensi. Lì, dove tutto ancora tace e ogni strada racconta una storia senza tempo; lì dove ogni angolo scopre un luogo della città uguale ma diverso, dove ogni suono è in perfetta armonia vibrante con l’ambiente tutt’intorno. Un tutto di alchimia e perfezione. Moreno in quel tutto ci viveva, lo sentiva sulla pelle, ne ricreava le luci, le prospettive e i colori e persino i suoni.»

Moreno ha qualcosa che gli altri personaggi che gli gravitano intorno non hanno, ha una luce che muove i suoi pensieri e che in qualche modo inspiegabile attira i suoi colleghi, i suoi nemici, i suoi capi, i suoi compagni di sventura. Ha una marcia in più che però finisce per farlo restare indietro, in fondo alla fila. Moreno è un antieroe, vittima di un tragico universo fantozziano che tuttavia di comico non sembra avere nulla: purtroppo la storia non fa ridere, nonostante la presenza di un mega direttore e di uno sfortunato a cui capita ogni sorta di sventura, ma lascia solo l’amarezza e l’angoscia di una situazione grottesca più grande di noi e comune a tutti.

«Ciò che riusciva a “vedere” andava ben oltre la gente del suo tempo, ben oltre la normale routine giornaliera di una città caotica: ciò che vedeva era la storia. Quella mente volava via, scivolava tra le strade e tra le genti e non si distoglieva mai dalla realtà circostante ma piuttosto, eludendosi che fosse soggettiva, ci s’immergeva e ne captava le bellezze che occhio nudo e superficiale non avrebbe mai potuto comprendere. Certe cose le vedeva con gli organi, altre coi sensi, altre ancora con la cultura. “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è” diceva Paul Klee.»

Moreno cerca salvezza dentro se stesso, perché è un sognatore, è un artista che guarda e soppesa le cose, che osserva e vive il presente nella sua mente, ma questo “navigare” non viene visto di buon occhio dagli altri, neanche da parenti e amici, per loro è solo un Peter Pan che non ha la forza di crescere e porre fine alle sue illusioni.

«Ma era davvero un difetto quella distrazione, quel dormitorio tra le nuvole, quell’isolamento, o nel peggiore dei casi quella difesa, quel ripiego tutto umano? […] Come poteva essere un difetto quel temperamento così mite, quell’indole così sensibile e contemplativa che si celava timida dietro a grandi occhi di mare.»

In alcuni momenti Moreno mi ha ricordato Gregor Samsa de La Metamorfosi di Kafka, per il senso di oppressione che mi ha trasmesso la sua solitudine, la sua condizione e il suo essere così diverso e lontano dagli altri muovendosi a stento in una società malsana e corrotta. La sua apparente immobilità lo avvicina al povero personaggio che in un mattino qualunque si sveglia trasformato in un insetto.

Per restare in tema “animali” è molto interessante notare e sottolineare la presenza delle continue metafore che attraversano il libro. L’autore avvicina i personaggi al mondo animale facendo saltare agli occhi la disumanizzazione di uomini e donne in un contesto lavorativo del genere e degenere, in una società consumistica e arrivista che non guarda in faccia a nessuno. Dal formicaio di operai che all’occasione diventano anche lucertole al sole nel cortile a Moreno che un suo superiore chiama lombrico, dai suoi movimenti animaleschi di pachiderma o di asino ai coloriti epiteti di topi, polli, furetti, pesci, cani o gatti attribuiti di volta in volta al protagonista e agli altri durante la narrazione. L’essere umano diviene belva, perde la sua dignità e la sua razionalità in un posto dove niente ha più valore, in un edificio che non garantisce la sua sicurezza e dove manca completamente la vegetazione, come viene specificato nelle prime pagine, in favore di «mattoni, calce e acciaio».

Come già accennato prima, la copertina non è per niente casuale. È bellissima e cattura l’attenzione, può sembrare distante e scollegata dal testo, ma non è così. E se all’inizio pensavo fosse solo esteticamente affine al mondo interiore di Moreno, poi ho capito che è molto più di questo. Nell’astrattismo del linguaggio pittorico di Kandinskij si rivela infatti un profondo significato, ossia la sua volontà di creare un rimedio per lo spirito con la sua arte in risposta al mondo sofferente, deturpato e utilitarista. È un quadro apocalittico dominato dal caos in cui però c’è la possibilità di una rinascita, dell’arrivo di una felicità disordinata. Contro la violenza del suo tempo scatenatasi con la Prima guerra mondiale e con la Rivoluzione russa, i colori e le linee del pittore diventano il desiderio urlato di una speranza impetuosa. E ho trovato delle affinità tra la raffigurazione e quel che accade in Di là dal muro, forse è quel che voleva far arrivare l’autore prima ancora di raccontarlo.

Non è per tutti questo romanzo per come è scritto e non è affatto una critica, anzi, è un complimento perché è questo il bello, di ovvietà nazional popolari e mainstream ora ne abbiamo anche troppe. È originale nel panorama editoriale odierno, perché parte dal passato, da riferimenti ben noti e di un certo livello, per approdare ad altro, a una strada personale e ben definita. Di là dal muro non è pretenzioso in senso arrogante, ma chiede un impegno da parte del lettore. Non negherò una fatica iniziale nell’affrontarlo, ma superato lo scoglio apparente ci si immerge nelle pagine con grande soddisfazione. Sono davvero in pochi a scrivere come Mario Caruso oggi, con uno stile letterario e così forbito. Qualche difficoltà in principio può esserci per chi non è abituato a un lessico alto, ma la narrazione scorre regolare e la storia si legge bene. Il linguaggio e lo stile sono sicuramente un motivo di vanto e un punto di forza per il testo. Non c’è un momento di sosta, le vicende di Moreno diventano le nostre, i pensieri con cui si trova a combattere sono gli stessi che abbiamo noi e fluiscono con naturalezza. Impossibile farsi scivolare via questo libro senza interrogarsi, senza riflettere su quello che emerge dalla lettura, senza considerare l’attualità del testo nonostante sia ambientato nel 1990. Perché collocare il proprio romanzo in un tempo passato e ormai finito? Perché forse non si è ancora concluso? È una scelta ardita e curiosa, ma non azzardata, in quanto allontanarci dal nostro tempo ci permette di vederlo meglio e con tutta la freddezza che serve per scandagliarlo con attenzione.

«Ma lui lo sa, io lo so, tu lo sai che non è così.»

Va segnalata anche la potenza della voce narrante che Mario Caruso definisce ignota e che si mette in contatto con il lettore, rivolgendosi a lui anche direttamente. Ci guida nelle tortuose strade della vita di Moreno portandoci con lui a casa, in quel che è stata la sua famiglia e in quel che è rimasto di lui bambino e poi uomo con una struggente nostalgia. Moreno fantastica sul passato, volgendo il suo sguardo contemplativo al Medioevo e al Rinascimento, così come fa allo stesso modo l’autore che nel 2018 guarda agli anni Novanta. Di volo in volo la mente è spinta sempre oltre, al di là del muro figurato che come direbbe Leopardi “da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. E in questo discorso si inserisce anche l’importanza che viene data alle parole: esatte, precise e sempre illuminanti, mai messe a caso né inutilmente ripetute.

Ho apprezzato le descrizioni dei paesaggi e degli stati d’animo di Moreno, che spesso avrei voluto abbracciare, perché tutti ci portiamo dietro il dolore e il fardello di un passato che non è sempre clemente. Nonostante sembri distaccato da se stesso e da quel che gli ruota intorno, lui subisce molto tutto ciò che viene dall’esterno e lo interiorizza a suo modo. A volte non ci sono risposte a ciò che succede e non riusciamo a metabolizzare il male che ci investe, però questo non ci impedisce di continuare a cercare un riscatto. Abbiamo bisogno di poche cose tutto sommato, poche certezze che tuttavia sono ardue da ottenere. L’amore si inserisce in questa tensione verso il futuro; Moreno deluso dal lavoro si dedica con anima e corpo a Carla, la donna misteriosa e sconosciuta che si insinua tra i suoi pensieri e nel suo cuore. Cosa ne sarà di lui? Troverà il coraggio per disfarsi della vergogna, del peso della sua professione, delle sofferenze patite? Lo lascio scoprire a chi si spingerà oltre queste colonne d’Ercole, come è giusto che sia. Moreno sarà un naufrago o un navigante che come Ulisse tenta di tornare a casa tra mille peripezie?

E Dante citato alla fine, con due terzine prese in prestito all’Inferno come epilogo, la dice lunga sulla conclusione della storia e su tutti i dubbi e le interpretazioni dei lettori. Non mi resta che augurarvi buona lettura.

 

Recensione “Addio fantasmi” di Nadia Terranova

Una delle migliori letture di questo anno è stata senza dubbio quella di Addio fantasmi, il romanzo di Nadia Terranova, finalista del Premio Strega 2019.

Cos’ha di particolare questo libro e perché mi ha conquistata? Mi basterebbe dirvi queste tre parole: evocativo, doloroso, quasi magico. Addio Fantasmi è un libro bellissimo. Sapevo che mi sarebbe piaciuto da impazzire dal primo momento che l’ho visto, pur senza conoscerne la trama, se non lo “Stretto” necessario (essendo ambientato a Messina leggendolo capirete perché questo mio gioco di parole) e senza averne mai letto neanche un estratto. Sentivo che era il libro per me, quel genere di romanzo che mi entra nel cuore e mi fa emozionare. Così è stato.

Ida Laquidara è siciliana, ma vive a Roma insieme a suo marito e al peso di un vuoto che la tormenta da ben ventitre anni. Sua mamma la chiama per farla tornare a casa perché vuole metterla in vendita dopo che avrà fatto ristrutturare il tetto. Ha bisogno di aiuto e vuole che sia la figlia a scegliere quali oggetti buttare e quali conservare. Così Ida sbarca a Messina e subito si riappropria della sua terra, della sua abitazione natale, dei suoi ricordi. Del dolore no, perché quello non l’ha mai lasciata, anzi ha scavato dentro di lei solchi lunghi e profondi che nemmeno l’acqua del suo mare sembra riuscire a rimarginare. È lì tra quelle mura macchiate di muffa e tristezza che Ida combatte la sua lotta silenziosa con i fantasmi del passato e del suo presente, perché quella mattina sembra rivivere e ripartire daccapo ogni giorno allo stesso modo come in un incubo. La sveglia puntata alle ore 6.16 e Sebastiano Laquidara, il professore e il padre che aveva ceduto il passo a un corpo muto senza ombra che non esisteva quasi più, si alza, si lava i denti, sceglie la cravatta, esce di casa e non fa più ritorno. Ida tredicenne resta intrappolata in quel momento, nel punto esatto in cui prende forma la scomparsa del suo papà. Quel rito lei lo rivive fino all’età adulta per esorcizzarlo e in cerca di una possibile salvezza. Ogni giorno e ogni notte Ida fa i conti con questo dramma che si ripete e alla fine come in ogni rappresentazione teatrale cala il sipario davanti a lei. È morto? Tornerà? Si è trasferito in un paese lontano? Ha una nuova famiglia? Domande a cui lei non può rispondere, ma che non smette di porsi, a cui tenta sempre di dare una soluzione diversa durante il sonno e da sveglia nella sua guerra quotidiana con se stessa e con il mondo.

E il confine tra sogno e realtà diventa sempre più labile tanto da sfiorarsi e mischiarsi in più tempi, a più riprese, come quel mare che avanza e torna indietro lasciando alle sue spalle una scia schiumosa ma impalpabile. In questo libro la simbologia dell’acqua è molto forte, quanto e più della casa invasa dalle infiltrazioni e in cui abitano gli spettri di Ida. Ovunque nelle pagine c’è l’acqua e ci sono i ricordi, che fanno male, che fanno mancare l’aria. Il mare è lì. C’è, quasi non si vede, non sempre, ma è dappertutto. Si sente, si percepisce, si vede nitidamente il dolore, il non riuscire a darsi pace e a superarlo. La speranza non muore perché quel punto di non ritorno non si trova.

Ida vuole ripartire dalla sua casa, fulcro della narrazione e dei suoi pensieri, ma non c’è via di fuga neanche lì dentro, nemmeno tra le cose che sono rimaste intatte negli anni e di cui Ida ha soltanto paura.

«Gli oggetti non sono affidabili, i ricordi non esistono, esistono solo le ossessioni. Le usiamo per tenere la crepa aperta e ci raccontiamo che la memoria è importante, che noi soltanto ne siamo i guardiani. Teniamo la ferita larga perché ci stiano dentro i nostri mali, i nostri timori, stiamo attenti che sia profonda abbastanza da contenere il nostro dolore, guai a lasciarlo vagare. Esistono solo le ossessioni, e intanto il tempo le ha rese più vere di noi.»

Ida prova anche tanta rabbia, che ha nascosto nei suoi silenzi e nel suo estraniarsi da tutto e tutti, specie da sua madre. Il rapporto con lei mi ha colpito molto, mi ha punto nel vivo e l’ho sentito addosso come una colpa, la colpa che Ida ha sempre creduto di avere nei confronti del padre. Madre e figlia non si sono mai parlate davvero, non hanno mai voluto o potuto affrontare la verità e piangere la loro desolazione. Questo Ida non glielo ha mai perdonato, così come nessuno ha perdonato a lei una sorta di egoismo nel male che aveva patito, ma per cui io invece non sono riuscita ad accusarla.

«Capii in quel momento cos’è davvero una madre: qualcosa da cui non esiste riparo. Dicono che una madre dà tutto e non chiede niente; nessuno dice invece che chiede tutto e dà ciò che non chiediamo di avere.»

Una storia potente quella di Ida, quasi immobile ma devastante nei fatti, nei ricordi, nei pensieri. Un libro sulla scomparsa e sulla perdita, sulle mancanze, sulle paure, sulle parole e sui silenzi, sulla sofferenza, sulla memoria, sulle domande che non avranno mai pace. Nadia Terranova ha scritto un piccolo capolavoro, introspettivo, profondo e intenso. La narrazione, nonostante l’angoscia da cui è sopraffatta la protagonista, scivola delicata, elegante ed esatta, perché ogni parola è giusta, ogni frase è precisa e azzeccata, non potrebbe essere raccontata in altro modo. I sentimenti Nadia li racconta con le azioni, con i movimenti e le frasi della protagonista Ida, così bloccata ma viva. I sogni, e gli incubi, si intrecciano a istanti del passato che riaffiorano pesanti e zuppi di inquietudine e nostalgia.

Qualcosa o qualcuno porterà Ida a chiedersi se c’è davvero un modo per uscire da quel dolore che la immobilizza e per affrontare una volta per tutte l’assenza, dandole un addio che possa essere definitivo e duraturo.

Addio Fantasmi lo consiglierò sempre a tutti, perché come potete capire l’ho amato. Mi ha fatto sentire la mancanza della Sicilia, una terra che non conosco e in cui non sono mai stata, ma che l’autrice rende così viva e reale da farla palpitare davvero come se fosse di tutti, anche nostra. Ogni parola e ogni frammento della sua storia parlano al cuore di tutti, soprattutto di quelli che hanno la sensibilità per cogliere la vita che esplode in quelle pagine e assaporarne la bellezza, anche nella disperazione.

«[…] osservo, e gli estranei mi appaiono per quello che sono, che siamo, un gruppo di sopravvissuti ciascuno alla propria battaglia. Vedo una schiera di uomini e donne e bambini monchi di famigliari, amici, amanti; vedo folle di persone che hanno attraversato la morte e ne sono uscite ammaccate, disturbate, mai uguali. […] Delle vite degli altri non so molto, ma se aprissi uno spiraglio la mia solitudine diventerebbe affollata.»

Recensione “L’Arminuta”di Donatella Di Pietrantonio

Ho pile e pile di libri da leggere, letture arretrate, interrotte per mancanza di tempo e altre programmate da recuperare insieme alle rispettive recensioni, eppure quando sono entrata in biblioteca qualche settimana fa ho dovuto prendere un altro romanzo in prestito. Lo so, sono proprio incorreggibile, ma quando tra le ultime novità ho trovato questi occhi in bianco e nero a fissarmi non ho saputo resistere. È da più di un anno che mi riprometto di leggerlo, che voglio scoprire la storia de L’Arminuta, quindi questa volta non potevo farmelo scappare e l’ho portato a casa con me. Perché la copertina Einaudi è la prima cosa che conquista di questo libro, ma oltre a quella io ho sentito subito una forte attrazione verso la storia, che non saprei neanche spiegare dato che non leggo mai le trame prima di scegliere una lettura.

L’Arminuta è Abruzzo allo stato puro con tutte le sue contraddizioni, con tutti i suoi limiti, con le sue tradizioni e le sue ostinate superstizioni. Donatella Di Pietrantonio ha saputo rendere con estrema efficacia e disarmante schiettezza un mondo semplice, rozzo, vero e genuino con un linguaggio aspro, tagliente, diretto che potrebbe far storcere il muso a qualcuno, ma che non poteva essere diverso per rappresentare quella realtà. C’è un legame che si crea subito con questo libro, almeno con me è accaduto. Specie per noi che questa terra la respiriamo e la abitiamo da quando siamo nati. Per noi che siamo cresciuti tra mare, campagna e montagna. Per noi che sorridiamo e ci ritroviamo in quel dialetto tanto caro quanto burbero, forse quasi incomprensibile per chi non è del posto. Il fatto che io sia abruzzese gioca a mio favore, ma ci sono sensazioni che vanno al di là dell’appartenenza geografica e che sono inevitabili.

C’è tanto dolore in questo libro. Un dolore grave, beffardo, penetrante, che pesa come il caldo asfissiante delle estati abruzzesi, come quella che vive e che ci racconta l’Arminuta. Ci tiene stretti alle pagine e scivola giù a strappi, a morsi convulsi, con parole ruvide e frasi dure, ma è un testo che in tutta quella spigolosità non perde mai la sua delicatezza e la sua anima profonda. Gran merito dell’autrice! Il dolore che c’è qui è più grande di quello che si immagina all’inizio e poi andando avanti con la lettura. C’è tanto dolore nascosto nelle pieghe della vita, anche lì dove era insospettabile che fosse, anche lì dove era impossibile per noi crederlo presente.

Chi è l’Arminuta? È una ragazzina di 13 anni che da un giorno all’altro viene portata in una casa che non conosce “al paese”, in una famiglia che non ha mai visto né sentito nominare, con una valigia e una busta piena di scarpe. Le hanno detto che quelli sono i suoi veri genitori e che tutti quei ragazzi sono i suoi fratelli. Lei non vuole stare lì, vuole tornare alla sua vita tranquilla in città, con la sua amica Patrizia e il mare lì vicino a lei come presenza costante. Non sa più nulla, non capisce, ha paura. Non trova affetto, ma neanche una buona accoglienza. Deve subito fare i conti con la crudeltà di alcuni fratelli, l’indifferenza del padre e della madre, la curiosità del fratello maggiore Vincenzo e l’impudenza della sorellina Adriana, ma anche con le diverse abitudini quotidiane e le ristrettezze economiche a cui sono tutti assuefatti. Siamo nell’agosto del 1975 in terra d’Abruzzo, in posti non precisati, senza nomi, così come senza nome è lei la protagonista, di cui seguiamo a poco a poco pensieri e malumori attraverso la sua voce, i suoi occhi curiosi e ingenui, attraverso la sua fragilità e la sua tenacia.

Le manca l’amore della mamma che l’ha cresciuta fino a quel giorno. Ora è sola, in mezzo a tutte quelle persone. Prova rabbia e rancore nei confronti di quelli che credeva essere i suoi genitori e che l’hanno abbandonata senza troppe spiegazioni. Adesso che ha ritrovato la sua madre biologica è confusa e non riesce a instaurare un rapporto con lei.

«Non l’ho mai chiamata, per anni. Da quando le sono stata restituita, la parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori.»

Lei stessa torna a usare varie volte durante la narrazione quella parola, “restituita”, come fosse un pacco. Tredici anni in una casa con dei genitori che all’improvviso smettono di esserlo senza un motivo apparente. L’Arminuta viene sballottata così da una parte all’altra, da una famiglia che credeva la sua a un’altra che per lei è straniera ma in cui è nata, dove ci sono l’uomo e la donna che l’hanno generata. Così come lei anche il lettore viene scagliato all’improvviso nella storia senza capire bene cosa succede.

Anche a scuola la sua sorte è la stessa che a casa:

«Lungo il corridoio gli altri hanno mantenuto una distanza che mi circoscriveva come estranea. Qualcuno aveva attaccato al banco dove stavo per sedermi un’etichetta invisibile con il soprannome che in paese usavano dopo il mio rientro in famiglia. Ero l’Arminuta, la ritornata. Non conoscevo quasi nessuno ancora, ma loro ne sapevano più di me sul mio conto, avevano sentito le chiacchiere degli adulti.»

Nelle parole dell’Arminuta si avverte ogni goccia del suo disagio, della sua solitudine, del suo smarrimento, lei che non sa più chi è, che non ci risparmia nulla della sua angoscia. «Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere», ci dice. È orfana di amore e di comprensione, nessuno sembra darle fiducia con la convinzione che sia troppo piccola per capire e così la lasciano sola nell’ignoranza di tutto ciò che le accade intorno. La sua esistenza viene privata a poco a poco di significato.

«Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.»

L’Arminuta è una lettura che è facile associare alla torrida estate. Quel caldo languente che si respira tra le pagine insieme a quell’aria pesante e vuota in cui il tempo sembra fermarsi sono tipici delle ore pomeridiane estive.

Quello che ne viene fuori è di un’intensità che stringe lo stomaco, che rende tristi, che fa sentire tutto con il cuore. Si avverte il desiderio impellente di fare qualcosa per alleviare quelle brutte sensazioni di cui sono vittime i vari personaggi. Tutto diventa dannatamente reale, come una corsa senza sosta con i polmoni in gola e la certezza di non farcela, ma poi il traguardo tanto atteso arriva, con il respiro mozzato e la stanchezza nelle gambe che spezza anche il fianco. Capiamo insieme all’Arminuta cosa è davvero successo, cosa ci hanno tenuto nascosto fin dal principio e cala il sipario. Il mare placido accoglie i nostri sospiri e i nostri dubbi. Perché è lì che ogni cosa confluisce alla fine. A dare ancora speranza ci sono proprio loro, Adriana la sorella che non sapeva di avere ma a cui si è inevitabilmente legata e il mare che non si stanca mai di calmare e mettere in salvo chi viene a cercarlo.

«Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza.»

Ci sono episodi davvero toccanti e così tangibili, che sembra quasi di viverli o di averli già provati sulla propria pelle, come l’emozionante serata alle giostre con i suoi fratelli o il suo compleanno festeggiato nel silenzio lontano da tutti. Chiunque riesce a sentirsi Arminuta grazie alla bravura di Donatella Di Pietrantonio e alle immagini che evoca. Lei riesce ad affrontare tematiche importanti e complicate come la maternità, il rapporto madre-figlia, i vincoli familiari, l’abbandono, la crescita in una maniera insolita e originale, con una potenza linguistica e simbolica significativa.

Ammetto che avrei voluto che questo libro fosse più lungo, avrei voluto saperne di più, continuare a leggere la storia di questa ragazza diventata poi donna forse troppo presto. Mi è dispiaciuto doverlo terminare. Ora però sono sicura di potervelo consigliare, perché è prezioso. Bello o brutto che vi possa sembrare, ho la certezza che saprà toccare le corde più intime del vostro essere.

Recensione “Cambio di rotta” di Elizabeth Jane Howard

L’anno scorso ho scritto questa recensione per il blog di Alessandra di ale.books_ dopo aver letto in versione digitale il romanzo Cambio di rotta della Howard che ci era stato inviato. Lei non ha potuto pubblicarla, ma io ve la propongo qui perché ci tengo molto.

 

Affidarsi a Fazi Editore è stata una mossa vincente anche questa volta. Se la casa editrice in questione non sbaglia un colpo, allo stesso modo Elizabeth Jane Howard a suo tempo ha dato il meglio di sé. Di conseguenza quella della Fazi di pubblicare i suoi romanzi non poteva che essere una scelta super azzeccata. L’autrice britannica che ormai tutti associano alla fortunata saga dei Cazalet non delude mai, a quanto sembra.

Il mio incontro con Cambio di rotta è stato infatti molto positivo. Penso sia uno dei libri più belli che io abbia letto nel 2018, quello più affine alla mia personalità e che sembra scritto per (una come) me. Introspettivo, bello, profondo, a tratti doloroso, ma necessario. Fa parte di quelle letture che fanno bene e che hai il terrore di portare a termine perché sai che non potrai separartene facilmente. Mi è entrato nel cuore, non solo per la pluralità di personaggi  e di sentimenti descritti, ma anche e soprattutto per lo stile della Howard. È un viaggio intimo ed esistenziale nell’animo umano, dove il nucleo della narrazione è quel che succede nel pensiero e nello spirito dei protagonisti, dentro di loro, più che fuori nella storia raccontata. Questo è l’aspetto che mi ha maggiormente affascinata. Mi ritrovo molto nei personaggi, ognuno ha qualcosa di me o meglio ho trovato qualcosa di mio, del mio carattere o del mio sentire in ognuno dei quattro protagonisti pur essendo molto diversi tra loro e lontani dal mio vissuto.

Andiamo con ordine, di cosa parla questo libro? La trama è semplice, ruota intorno alla vita nomade e mondana di una coppia di mezza età dell’alta borghesia inglese che viaggia per il mondo e si divide principalmente fra Londra e New York. Lui, Emmanuel Joyce, è un drammaturgo di origini modeste che riesce a trovare il suo posto nel mondo e ad affermarsi. Lei, più giovane del marito, Lillian Joyce, è una donna elegante, avvezza alla vita di società, tanto da sembrare frivola senza esserlo davvero, ma di salute cagionevole, fragile e facilmente irritabile. Tra i due a fare da collante c’è l’agente personale tuttofare Jimmy Sullivan, brillante trentenne che però sembra aver passivamente annullato la sua esistenza per correre dietro ai bisogni di Em e ai desideri e ai capricci di Lillian.

La storia entra subito nel vivo con un episodio sconcertante che mette a soqquadro il placido mondo dei tre protagonisti, che noi lettori ancora non conosciamo. Ragion per cui il libro mi ha coinvolta sin dalle prime pagine, riuscendo a catturare la mia attenzione. Veniamo rapidamente catapultati nella testa di Jimmy, Em e Lillian senza nessun filtro né troppe spiegazioni. È una lettura scorrevole che procede spedita e con naturalezza, fatta eccezione per alcune parti un po’ più lente e faticose delle altre all’inizio del testo perché ridondanti o eccessivamente complesse, soprattutto nella narrazione di Em e di Lillian. Sì perché la storia ha più voci ed è raccontata da tutti e tre i personaggi, a cui si aggiunge una quarta e imprescindibile figura impersonata da Alberta, una giovane e ingenua ragazza di provincia assunta come segretaria, ma che si rivelerà ben presto molto più importante e con un ruolo da vera protagonista inattesa.

Potrebbe essere un problema della traduzione o semplicemente l’autrice ha volutamente inserito questi passaggi più tortuosi per mettere alla prova il lettore, questo però non preclude il piacere della scoperta e della lettura, anzi rinsalda il rapporto che si instaura con i protagonisti senza rallentare troppo il racconto. La storia prende immediatamente velocità tuffandosi nella coscienza e nel cuore dei nostri quattro amici.

Punto di forza del libro è senza dubbio la caratterizzazione dei personaggi: Elizabeth Howard scava a fondo la psicologia dei diversi protagonisti, ma con una franchezza e una semplicità quasi commovente. È un tripudio di emozioni, di riflessioni, di incertezze, di errori, di crisi e di entusiasmi, di incomprensioni e di cambi d’umore improvvisi. Un velo di tristezza e di malinconia pervade le pagine, però viene fuori con una dolcezza tale da immedesimarsi e lasciarsi coinvolgere pienamente nelle trame dei loro pensieri.

«Quanto siamo banali! Tre meccanismi che si urtano tra loro e ticchettano frenetici verso un obiettivo che ignorano del tutto! A meno che non consideriamo un miracolo la nostra stessa esistenza»

Cambio di rotta è un lungo cammino con Em, Lillian, Jimmy e poi Alberta, che ci porta da Londra a New York, fino a un’isola della Grecia per poi tornare al punto di partenza, ma seguendo l’evoluzione personale di ognuno di loro. Assistiamo a una trasformazione nell’animo e nella volontà dei partecipanti a questa lunga e impervia traversata. L’autrice diluisce tutto questo in otto capitoli ciascuno dei quali è diviso tra i quattro personaggi che si alternano nel racconto. La scrittura cambia anche in base alla voce narrante, lo stile si adatta in maniera naturale ai protagonisti ed è ciò che rende ancora più accattivante la lettura. Curiosità che salta subito all’occhio è il fatto che parlino tutti in prima persona, tranne Emmanuel i cui paragrafi a lui dedicati sono raccontati in terza persona con un punto di vista limitato soggettivo, che si intreccia ai discorsi indiretti liberi. Forse perché è lui il personaggio cardine della storia, quello grazie al quale si dirama la concatenazione di eventi di tutta la compagnia. Il centro delle vite di Lillian, di Jimmy e Alberta. O forse no. In tutto il libro non ho mai trovato un momento in cui Em abbia un ruolo predominante rispetto agli altri. Sono tutti sullo stesso livello, nelle loro diversità, importanti in egual misura, ognuno con un segreto che nasconde agli altri e che lo eleva a protagonista del romanzo. Esistono tutti in maniera autonoma, indipendentemente da Emmanuel, seppur legati insieme a lui e per lui, a causa sua.

Cosa si può aggiungere di nuovo di questo libro che non sia già stato scritto o detto da chi lo ha letto e recensito? Ci sarebbe molto da dire in realtà e non sento di correre un grande rischio nel ripetere considerazioni affrontate da altri, perché questo è davvero un gran bel romanzo, un gioiellino altamente godibile. È una storia di vita e di vite che si sfiorano, si scontrano e si fondono. Lascia numerosi spunti su cui meditare e tanto su cui interrogarsi.

A qualcuno potrebbe sembrare che non accada nulla, che la trama sia prevedibile o almeno facilmente intuibile per certi aspetti, che sia lenta o addirittura ferma, invece in questo libro succede tutto! Anzi a volte si muove anche troppo velocemente, come le repentine e radicali inversioni di marcia o i capovolgimenti decisionali. È un’altalena di stati d’animo che mutano inevitabilmente, diventando spesso una montagna russa senza controllo.

Sembra che nessuno sappia cosa vuole davvero. Cosa che viene ribadita a turno e con più insistenza dai vari personaggi. Eppure tutti vanno in quella direzione, quella dettata dal loro istinto, dal loro cuore. L’intero romanzo si gioca sul cambiamento, sull’impossibilità di attuarlo o la velocità con cui arriva e ci travolge. Tra una commedia e l’altra che il nostro Emmanuel tenta di scrivere alla ricerca disperata di un’ispirazione, che quando serve tarda ad arrivare, si consuma il magnifico dramma della vita.

Sicuramente sono felice di averlo letto e scoperto, lo consiglio caldamente a chi cerca una narrazione profonda ma non impegnativa o pesante, che prosegue docile e si concentra sulle riflessioni universali che ti fanno sentire parte delle storie e delle loro dinamiche.

«È così che è finita. Ed è così che è incominciata.»

Recensione “Cento grammi di sole” di Fabiana Zollo

Ho conosciuto virtualmente Fabiana Zollo forse un annetto fa, da quando sono approdata nel magico mondo “libroso” di Instagram, dove mi sono da subito circondata di libri, di bookblogger e bookstagrammer, di case editrici e di autori. Fin dai primi post di Fabiana e dalle sue parole mi è risultata simpatica, ho immediatamente sentito l’esigenza di leggerla e di scoprirla attraverso il suo libro. All’epoca aveva scritto Settemila caffè e io ero molto curiosa di leggerlo. Poi il tempo è passato, non sono riuscita nel mio proposito ed è invece arrivato il momento di una nuova storia, ovvero Cento grammi di sole. Un bel giorno Fabiana sul suo profilo Instagram englishfab_ ha registrato delle stories parlate in cui per la prima volta ha parlato del suo nuovo libro. Mi ha conquistata! Ho adorato il suo modo di raccontarcelo, di affrontare quello che è stato un periodo difficile e doloroso della sua vita con il sorriso e la voglia di dire a tutti “Ehi, io ce l’ho fatta a superarlo, puoi riuscirci anche tu!”. E mi ha trascinato con lei alla scoperta di Ronnie, di Danny e di Connor. Fabiana ha prontamente ammesso che c’è un po’ di lei nella protagonista Ronnie. È un romanzo, una storia inventata, ma si sente che c’è molto di suo o quanto meno che in lei c’è tutta la sua determinazione, la sua voglia di riscattarsi e dimostrare al mondo che c’è sempre posto per un po’ di sole, anche solo cento grammi che possono bastare per tirarsi su e riprendere in mano la propria vita. Sono pochi ma possono fare davvero la differenza.

Fabiana racconta la vita di Ronnie una ragazza appena diplomata che sogna un futuro brillante nella moda, che studia e si impegna per entrare in una rinomata accademia di New York e che vuole lavorare e fare sacrifici per poter un giorno aprire la sua boutique. Ha una bella famiglia che non vuole deludere, una sorellina più piccola di cui vuole essere un modello, un migliore amico che spera di non perdere mai, un ragazzo più grande di lei di cui è pazzamente innamorata, ma che le fa mettere costantemente in dubbio la loro relazione. È tosta, pronta a qualunque cosa per realizzarsi ed essere felice. Eppure all’improvviso tutto viene messo in discussione. Che direzione prenderà la sua vita?

Prima di approcciarmi a questo libro non sapevo esattamente cosa aspettarmi, non sapevo se fosse davvero il mio genere, ma mi sono accorta fin dall’inizio del suo potenziale, è una storia che va letta e non va assolutamente sottovalutata. Non è affatto banale, né melensa, non è per niente superficiale, anzi tutto il contrario. È una storia che va al di là del romanticismo, perché è molto più profonda e complessa, che parla all’animo e alla sensibilità dei lettori e che Fabiana stessa ha scritto mettendoci tutto il suo cuore. Si è aperta come forse in pochi sanno fare. A me è piaciuta tantissimo, mi sono entrati dentro tutti i personaggi e mi mancheranno. È impossibile non affezionarsi, diventano dei nostri amici. Il punto forte della narrazione è proprio questo, la grande immedesimazione nei personaggi descritti che è inevitabile per il lettore. Ho sofferto e gioito con Ronnie, ho tifato per Danny, mi sono commossa per la dolcezza di certe scene e per le emozioni che mi hanno travolta a ogni pagina. Unico appunto è sulla figura del padre di Ronnie, che rispetto alle altre è poco approfondita e soltanto accennata. Ho divorato il romanzo in due giorni, io che sono lentissima a leggere anche le cose che più mi piacciono, e questo non mi accadeva da tempo.

Cento grammi di sole mi ha riportato indietro nel tempo agli anni dell’adolescenza, della fine della scuola e degli inizi universitari. Gli anni in cui si è ancora abbastanza leggeri per planare sulle cose e puntare in alto l’asticella degli obiettivi pur essendo abbastanza grandi per vivere a pieno e consapevolmente il mondo. Perché è così, come dice anche Fabiana, a 18 anni si aprono davanti a noi infinite possibilità, ci sentiamo in qualche modo protetti e sentiamo di poter riuscire a dare un senso alla nostra vita perché c’è ancora tempo per farlo. Il futuro non fa paura anche se non lo vediamo. Nulla sembra poter andare storto e anche se lo farà abbiamo la convinzione che probabilmente avremo modo di rimediare, di riprovare, di cambiare progetti. C’è sempre un piano B quando hai diciotto anni. Poi la vita non manca mai di ricordarci che in realtà tutto può smontarsi e crollare in un secondo, che quello che si desiderava e pianificava in un colpo solo può essere cancellato. E si paga a caro prezzo. La vita mette tutto su un piatto e poi scombina ogni cosa, non ha scrupoli nel ricordarti quanto possa far male, quanto riesca a demoralizzarti. Le amicizie e gli amori cambiano, finiscono, si perdono. Le certezze diminuiscono e rimane ben poco a cui aggrapparsi, e a volte non basta neanche quel che resta lì per noi, con noi.

Ronnie ci ricorda quanto siamo magnificamente fragili e forti al tempo stesso, quanto sia precario l’equilibrio sul quale ogni giorno muoviamo i nostri passi, ma questo non ci impedisce di continuare a correre perché è vietato restare fermi, non possiamo rimanere immobili e inermi. Ci vuole una buona dose di coraggio per riprendersi, per ritrovarsi, per recuperare la forza di rialzarsi e restare in piedi. Lei ce l’ha e lo ha dimostrato. È riuscita ad accettare l’idea che la sua esistenza avesse preso una piega totalmente inaspettata e differente da quella che sognava. Perché in fondo ci si adatta, ci si abitua a tutto. Non è semplice, non è indolore, ma si fa, si può, siamo fatti per evolverci, per crescere e per stupirci di noi, lasciandoci andare all’ignoto senza rinunciare mai a noi stessi.

Ronnie nonostante tutto quello che le accade e che la travolge suo malgrado non rinuncia ai sogni secondo me, anche se può sembrare, perché lei la speranza non la perde mai e non la perderà mai, ne sono certa. È combattiva, è determinata a trovare il suo posto nel mondo e a tenerselo stretto. Ronnie è un po’ come Fabiana, una ragazza giovane, carica di entusiasmo e voglia di fare, una donna pronta per la vita, che affronta ogni giornata e ogni imprevisto con il sorriso sulle labbra e tanto amore negli occhi. Sono solari, sempre allegre e piene di vita, anche quando muoiono dentro, perché vogliono mangiarselo il mondo. Questo è quello che mi ha trasmesso con il suo libro, anche se non la conosco personalmente. Cento grammi di sole mi ha fatto proprio pensare alla sua autrice infatti. La stessa passione e lo stesso trasporto, che ho colto nei primi video di Fabiana sul suo libro nel profilo Instagram, li ho percepiti anche leggendo il romanzo. È un libro vivace, dolce, colorato come è lei. Mi ha incuriosito dal primo momento in cui lei ne ha parlato e già dall’anteprima ne sono rimasta rapita, non potevo non sapere come sarebbero andate le cose a Ronnie, Danny e Connor. In ogni pagina viene descritto bene il mood dei personaggi, così come l’ambientazione rende perfettamente il senso della storia. Il ritmo del racconto è veloce e dinamico. È un romanzo che si legge in poco tempo perché è ben scritto, ben costruito e scivola via come le immagini di un film, dopotutto sullo schermo questa storia ce la vedrei proprio bene. Io spero anche in un seguito in realtà, perché un libro non basta per questa storia che secondo me finisce sul più bello.

Del nuovo romanzo di Fabiana Zollo io ho letto le bozze non (ancora) editate grazie alla casa editrice Bookabook, prima in Italia nel crowdpublishing. Di che cosa si tratta e in cosa consiste esattamente? Il giovane team della Bookabook dà l’opportunità alle storie che meritano di diventare libri di entrare in campagna di crowdfunding, grazie alla quale testi ancora inediti si giocano la possibilità di essere pubblicati soltanto se la campagna raggiungerà il goal, ossia il numero minimo di copie pre-ordinate. Punto centrale del progetto è il passaparola che si sposa perfettamente con lo spirito del crowdfunding, cioè quello di costruire un pubblico coinvolto intorno al libro e al suo autore. Bookabook pubblica libri per i lettori e insieme ai lettori, mettendoli al centro del processo editoriale. Editor professionisti in una prima fase selezionano con cura la qualità delle proposte, mentre nel secondo step i lettori hanno l’ultima parola sulla scelta dei libri da pubblicare. I lettori possono scaricare gratuitamente l’anteprima di un libro e, se desiderano proseguire la lettura, possono pre-ordinare una copia nel formato che preferiscono, cartaceo o ebook. Si viene così a creare una community di lettori che credono in un progetto prima ancora che venga pubblicato. È una nuova esperienza di lettura in cui tutti possono accedere alle bozze, interagire con l’autore e scambiarsi opinioni, partecipare a eventi di presentazione o anche semplicemente condividere il libro sui social network.

Centro grammi di sole è uno di questi testi attualmente in campagna che ha superato l’analisi qualitativa della redazione, ma non è ancora stato editato; se la campagna andrà a buon fine, il prodotto definitivo potrà essere leggermente diverso in quanto subirà l’intervento dell’editor che lavorerà insieme all’autore. Essendo appunto un testo inedito che non è stato ancora corretto il romanzo di Fabiana presenta dei refusi, alcuni piccoli errori e dettagli da sistemare, come è ovvio che sia, ma di per sé è già pronto, a me sembra un prodotto effettivamente maturo e ben costruito.

La campagna di Cento grammi di sole ha davanti ancora 53 giorni per provare a raggiungere l’obiettivo. Non volete aiutare Fabiana a realizzare il suo sogno più grande? Il suo romanzo ha tutte le carte in regola per diventare libro di carta e inchiostro. La fiducia di Bookabook è un buonissimo punto di partenza, ma ora serve anche la vostra. In vista dell’estate regalatevi una bellissima storia di amore, di crescita e amicizia, una di quelle in cui buttarsi a capofitto con gli occhi che brillano e il cuore colmo di positività. Questo è un romanzo sulla fiducia, la fiducia nell’altro, negli altri, in se stessi, nel futuro e nella vita che nonostante qualche piccolo scherzo sa sorprenderci e accompagnarci attraverso il tempo. Non è solo una storia romantica, perché l’amore c’è in tutte le sue forme, non solo quello di coppia, ma anche quello per gli amici, per i genitori e per i figli, per se stessi. È una storia adatta alla bella stagione che si avvicina, perché è fresca, ma anche riflessiva, sa di vacanze estive e di felicità, quella che però costa tante lacrime e che fa male raggiungere, che tuttavia può regalare tanti ricordi e momenti memorabili.

Anche io scrivo, da sempre, e come Fabiana sogno di pubblicare un libro un giorno, anzi più di uno se possibile. Per questo motivo mi riempie di gioia quando qualcuno ha delle aspirazioni simili alle mie e ce la mette tutta per farcela, soprattutto quando riesce a realizzare i miei stessi desideri. Io faccio il tifo per lei perché se lo merita.

Volete unirvi? Vi lascio il link per contribuire a questo progetto e pre-ordinare la vostra copia: https://bookabook.it/libri/cento-grammi-sole/

Recensione “La ragazza che amava Audrey Hepburn” di Rebecca Serle

Se vi chiedessi di fare una lista delle cinque persone, vive o morte, da invitare a cena con voi chi scegliereste? E se poi quella cena si avverasse e vi ritrovaste davvero a tavola con quelle persone, ci credereste mai? È un po’ quello che mi sono chiesta io leggendo La ragazza che amava Audrey Hepburn il romanzo di Rebecca Serle uscito il 29 gennaio 2019 per DEA Planeta.

Della trama basti sapere che Sabrina nel giorno del suo trentesimo compleanno si ritrova a cena con Audrey Hepburn in carne e ossa, con Jessica la sua migliore amica di sempre, con Conrad il suo professore di filosofia dell’università, con Robert il padre che non ha mai veramente conosciuto perché è andato via quando lei era piccolina e infine con Tobias il suo ex ragazzo, la sua storia d’amore più importante. La confusione e la perplessità della protagonista sono le stesse del lettore: cosa sta accadendo? È forse un sogno? È uno scherzo? Lei è per caso morta? Non lo sappiamo, non sappiamo quasi nulla e dobbiamo scoprirlo da soli, capitolo dopo capitolo. Qual è l’idea su cui si basa questo libro? Cosa è reale e dove inizia invece la finzione? Tutto questo è una proiezione della sua fantasia e Sabrina sta immaginando la scena che si trova davanti o sta vivendo davvero questa situazione paradossale? O semplicemente siamo di fronte a quel genere di romanzo in cui l’impossibile diventa normale? Tante le domande che si rincorrono, si ripresentano e aumentano con l’avanzare delle pagine.

Come ogni cena che si rispetti il tempo è cadenzato dal cibo, dall’alcool, dai ricordi, dalle discussioni, dal racconto di piccoli grandi segreti e da conversazioni profonde alternate a scambi di battute più frivole. Proprio per il carattere del racconto, che è incentrato su dialoghi e chiacchierate tra vecchi amici, i temi trattati sono tanti, tra i più disparati: l’infanzia, il rapporto padre figli, l’alcolismo, la perdita, la paura, la felicità, l’amicizia e, immancabile, l’amore. C’è la vita in tutte le sue sfaccettature.

Sullo sfondo di una New York vivace e giovane in cui tutto sembra possibile o quasi, nasce e cresce un amore smisurato, impulsivo e straripante, talmente pieno da rischiare di esplodere da un momento all’altro. La sua bellezza rischia di far crollare tutto.

«Ci buttammo a capofitto nella nostra storia. Riempimmo tutto lo spazio fino a farlo scoppiare.»

Quello che più mi è arrivato della storia tra Sabrina e Tobias è sicuramente la dolcezza e la forza invincibile dei loro vent’anni. Mi tornano in mente delle immagini simbolo di questo libro: un ragazzo con un girasole e una ragazza in pantaloncini con i capelli al vento. Vediamo due cuori stracolmi ma sofferenti che si sfiorano, si intrecciano e si scontrano continuamente. Sono giovani e credono che il loro amore si basi sul destino e su una teoria singolare dei fiori e dei giardinieri, ma dimenticano spesso di dover fare i conti anche con la quotidianità e con il mondo che abitano.

«Jessica ha questa teoria, per cui le persone di una coppia possono essere fiori o giardinieri. Due fiori non dovrebbero stare insieme: hanno bisogno di qualcuno che li sostenga, che li aiuti a crescere.»
«Ci sono fiori e ci sono giardinieri. I fiori sbocciano; i giardinieri se ne prendono cura. Di due fiori non si prende cura nessuno. Così muoiono.»

E come non nominare il gioco del cinque? Tobias si diverte a chiedere a Sabrina quali sono le cinque parole che rappresentano il suo stato d’animo e la sua vita in quel momento e per tutto il romanzo i due si sfidano a colpi di cinque parole che custodiscano i loro timori, i loro sentimenti, i loro pensieri. Hanno paura questi due ragazzi, ma tendono a ignorarlo. E così la loro relazione diventa una folle altalena che non ne vuole sapere di fermarsi.

Quella in onore di Sabrina è una cena molto particolare, per usare un eufemismo. Sicuramente un ruolo d’onore lo ricopre Audrey Hepburn, personaggio icona, idolo a cui si ispira Sabrina, che qui emerge al naturale, quasi a volersi allontanare dalla figura stereotipata che il tempo ci ha restituito e da quella dei personaggi che ha interpretato nei vari film che l’hanno vista protagonista. È una donna, una mamma, un’amica, prima ancora che una star e un’attrice, e in questo romanzo traspare tutta la sua umanità. Poi c’è il professore di filosofia che riesce a capire le persone e ad aiutarle a gestire le loro emozioni. Jessica, coinquilina e amica del cuore un po’ troppo severa con Sabrina e che ha preso ormai una strada diversa dalla sua. Un padre semi sconosciuto che però ha molto da darle e da raccontarle. Infine il suo ragazzo, il grande amore della sua vita, che lei mette al centro di tutto, senza sapere che l’unica maniera di sopravvivere in verità è quella di mettere al centro della propria esistenza se stessi per poter amare gli altri e amarsi davvero.

«Chiedemmo un minuto. Forse non avremmo dovuto. Forse avremmo dovuto ordinare la nostra pizza. Magari ce l’avrebbe portata al momento giusto, impedendo che accadesse ciò che accadde dopo.

È fatta così, la vita: i momenti che definiscono la nostra esistenza emergono dal nulla. Una telefonata persa. Una caduta dalle scale. Un incidente d’auto. Accadono in un istante, il tempo di esalare un respiro.»

Sabrina si ritrova a tu per tu con i suoi incubi, con i suoi dubbi, con i rancori repressi e con il dolore. Ognuno degli invitati che è seduto a quel tavolo accanto a lei incarna una parte della sua esistenza e una parte della sua anima, tutto ciò che di bello e di brutto ha dovuto vivere con o senza quella persona. Sono tante le riflessioni che suscitano le pagine del libro, ma ce n’è una che mi ha colpito particolarmente, una sensazione che si può evincere dalla figura di Sabrina o che quanto meno ho letto io tra le righe. Sto parlando del giudizio delle altre persone che in un modo marginale o in maniera decisiva influenza il nostro pensiero e le direzioni che diamo ogni giorno alla nostra vita. Bisognerebbe fregarsene dei giudizi altrui, ma non è mai facile. Come riuscirci? Ho notato che Sabrina è ed è sempre stata vittima di quello che gli altri pensavano di lei o volevano per lei. E non gliene faccio una colpa, anzi la capisco bene perché ho sempre pensato io stessa di subire un po’ troppo il pensiero e i desideri degli altri sulla mia pelle. È inutile scervellarsi tanto per trovare un rimedio perché comunque andranno le cose sarà sempre eccessivamente ingombrante il parere di chi ci sta accanto e a cui vogliamo bene, che sia quello degli amici o di familiari e parenti. In un modo o nell’altro sarà fondamentale per noi. Aspetteremo sempre il loro tacito consenso e spesso non capiremo se quello che noi desideriamo è veramente ciò che vogliamo o se è solo quello che vogliono loro per noi! E questo si evince molto anche nel racconto della Serle.

Tra personaggi ormai morti, come Audrey Hepburn, e altri che Sabrina non vede più o con cui non parla più, quella che vive nel tempo di una cena è una serata surreale e irreale, sia per l’impossibilità dell’evento in sé, che per i discorsi che affrontano sulla vita, sull’amore, sulla bellezza, sul matrimonio e sulle varie esperienze personali, che sono così intimi, filosofici e tutti condensati insieme in così poco tempo da non sembrare credibili a volte. Ciò nonostante viene fuori un bel quadro, con discussioni stimolanti che lasciano un sacco di spunti su cui ragionare e che stimolano la nostra curiosità. Cosa succederà? Ci sarà una spiegazione esaustiva alla fine? Le ipotesi che ci frullano in testa sono molte, sono diverse e crescono a dismisura, ma soltanto al termine della lettura si riesce a comprendere il tutto e a capire fino in fondo il messaggio che nasconde questa storia.

Cosa hanno in comune Sabrina e i suoi cinque invitati? Sembrerebbe nulla, o forse tutto. Ciascuno di loro ha perso qualcosa o qualcuno. Tutti hanno conosciuto il dolore.

«Come si fa a sapere quando si è dato abbastanza e quando si è dato troppo?»

Curiosità su cui mi piace sempre soffermarmi è il titolo del libro. L’originale è The Dinner List perché tutto ruota intorno all’esercizio che Jessica fa fare a Sabrina, ovvero stilare la lista di cinque persone, vive o morte, da invitare a cena. Quando la scrive per la prima volta Sabrina ha solo 19 anni e non inserirà gli stessi nomi, alcuni li ha difatti modificati poi nel corso del tempo e a 30 anni, momento estremamente delicato e problematico fatto di crisi e incertezze, si ritrova davvero intorno a un tavolo con quelle persone. Cosa si diranno e cosa accadrà tra loro? Riuscirà Sabrina a dare un senso a ogni cosa e a sfruttare il suo tempo con ciascuno di loro?

«[…] la cena immaginaria era una specie di resa dei conti tra parti di sé con cui bisognava scendere a patti»

Consiglio di leggerlo perché è sorprendente, delicato e doloroso, fa male scoprire quello che si nasconde dietro le scelte di Sabrina e soprattutto quello che si sveleranno i vari personaggi, ma è un viaggio molto bello che riempie il cuore e vi emozionerà.

Con una scrittura bella, elegante e scorrevole Rebecca Serle ci ha regalato un libro originale a cui è impossibile non affezionarsi. La leggerezza che si evince dalla copertina così fresca e delicata, come la storia che racconta, rispecchia proprio le impressioni che scaturiscono dalla lettura. È una vicenda triste, profonda, molto toccante, ma non risulta mai pesante e quella leggerezza di cui parlo sta proprio nel fatto che il romanzo accarezza le corde giuste della nostra anima e ci riempie. Quello che ci tormenta e che ci rattrista è ciò che ci fa crescere, cambiare e rialzare quando franiamo al suolo. E il più delle volte è anche quello che ci dà lo slancio per ripartire e riprovare a volare. Che sia reale o no questa storia ci insegna quello che sulla carta sappiamo più o meno tutti, ma che nella pratica non riusciamo a riportare quasi mai.

«Non abbiamo finito. Siamo qui per trovare la via del ritorno.»

Recensione “La verità sul caso Harry Quebert ” di Joël Dicker

È stato un caso editoriale in Francia e poi in tutti i paesi in cui è stato tradotto, un giallo che ha stregato e appassionato migliaia di lettori incollandoli alle pagine. Sto parlando del celeberrimo romanzo di Joël Dicker, La verità sul caso Harry Quebert. Accolto con grande entusiasmo e pareri esaltanti dalla critica, acclamato in tutto il mondo come un successo strepitoso, come potete immaginare ha incuriosito e tentato anche me.

Non vedrete però lo stesso calore in questa recensione, né paroloni come “mozzafiato”, “geniale”, “prodigioso” o “toccante”, questo non perché sia un brutto libro o perché non mi sia piaciuto, ma perché non ho avuto le stesse percezioni della maggioranza e non ho trovato il capolavoro che mi aspettavo tra quelle pagine.

Innanzitutto parto con il dirvi che ho letto il romanzo a tappe con altre ragazze in un gruppo di lettura creato da Sam di @leggoquandovoglio (nome del suo account Instagram e dell’omonimo blog) ed è un dettaglio rilevante in quanto un libro di più di 770 pagine che rientra nella categoria dei thriller e della narrativa gialla può sicuramente perdere un po’ del suo fascino e della suspense se lo si deve suddividere in otto parti per la durata di due mesi circa con una discussione a settimana.

Adesso che l’ho finito (in realtà è passato un po’ di tempo ormai, ma solo ora scrivo qui le mie impressioni) ho una visione d’insieme e so bene cosa ne penso, però voglio lo stesso rendervi partecipi dei commenti e delle sensazioni che mi ha lasciato a ogni “puntata”. Sarà una recensione a tappe in un certo senso, per monitorare quello che è stato l’evolversi della lettura e dei miei sentimenti, così come abbiamo fatto nelle discussioni del gruppo in chat e che a mano a mano Samantha ha riportato nei suoi post su Instagram.

Dalle prime pagine mi è sembrato si sapessero già tutti i fatti e mi sono chiesta: riuscirà mai a trascinarmi davvero questa storia, come ho sentito dire da molti?

Dicker infatti sviluppa la trama su due piani narrativi e temporali diversi: nell’estate del 1975 ad Aurora, ridente e tranquilla cittadina del New Hampshire, la quindicenne Nora Kellergan scompare nel nulla e non se ne ha più traccia. Nel 2008 a New York il giovane e promettente autore Marcus Goldman, che ha conquistato le vette delle classifiche con il suo primo bestseller, cade in un blocco dello scrittore e non riesce a scrivere il suo secondo romanzo. A scatenare l’inferno però è la notizia che il suo professore Harry Quebert, anche lui scrittore, tra i più apprezzati in America, viene accusato dell’omicidio di Nola Kellergan. Tutto precipita in un susseguirsi di bugie, malintesi, colpi di scena, flashback, supposizioni. Quale sarà la verità? E Marcus riuscirà a scrivere il suo nuovo libro?

Leggendo ho capito che La verità sul caso Harry Quebert non è semplicemente un thriller. La parte iniziale mi ha appassionato non solo perché si legge molto velocemente e con facilità (e io sono lentissima di solito), ma anche e soprattutto perché è incentrata molto sulla scrittura. Vecchi e nuovi autori tra i quali c’è una profonda amicizia e un rapporto di grande stima, ma anche blocchi di ispirazione, questo è il quadro generale che mi ha subito coinvolto. La narrazione scorre fluida e rapida. Il protagonista è a tratti abbastanza insopportabile, almeno nei racconti della sua vita passata, per la sua presunzione e arroganza. Per fortuna però il punto di forza resta la storia principale che si infittisce sempre di più, anche se è ancora troppo presto per capire quello che è successo. Quello che mi incuriosisce molto è l’insolita numerazione decrescente dei capitoli che parte da 31 e va a scalare a ritroso. Chissà quale sarà la motivazione?

La storia d’amore che emerge andando avanti è abbastanza sempliciotta per come è narrata e i dialoghi sono spesso banali. Non si riesce a empatizzare con i due innamorati. Il racconto però è sempre fluido, nonostante i continui flashback. La curiosità di sapere di più e andare avanti mi ha sempre accompagnata, perfino quando ho iniziato ad avere dei sospetti sulla vicenda e sulle persone coinvolte.

Quando la storia si arricchisce di nuovi elementi, il ritmo si mantiene alto. Si vorrebbe scoprire tutto subito, capire, arrivare al nocciolo della questione. Invece no, continuano le altalene temporali e le frasi fatte e troppo banali, ma questo non ha intaccato il mio interesse. Sempre belle per me le parti sulla scrittura, sulle idee e la stesura di una storia, che corrispondono ai discorsi tra Marcus e Harry.

A lungo andare la storia evolve con nuovi elementi e piccoli indizi, eppure sembra non esserci granché di eclatante o sconvolgente perché sono piste e sospetti che il lettore ha iniziato già a formare nella sua mente. Dalle prime congetture i personaggi che potrebbero essere implicati non dovrebbero rivelarsi come colpevoli, sarebbe troppo scontato, ma chi può dirlo? Data la lunghezza siamo purtroppo ancora lontani dallo scoprire tutta la verità. La curiosità va di pari passo con l’impazienza.

Verso la fine, nella penultima parte, torna finalmente un po’ di movimento nella storia. La faccenda si fa più contorta, la curiosità mista all’ansia di arrivare alla fine è tanta. Alcune cose restano prevedibili o comunque facilmente intuibili, i colpi di scena riguardano situazioni che già si avvertivano torbide e poco convincenti. L’interrogativo più grande è sempre lo stesso: sarò soddisfatta alla fine?

Dopo un lungo viaggio si arriva finalmente a destinazione, viene fuori tutta la verità. La ricostruzione completa dei fatti però non è bastata perché comunque mi ha lasciato un po’ delusa e confusa sulla mia reazione. Avevo aspettative molto alte sul libro anche per la sua risonanza. Eppure oltre a essere scorrevole, non mi ha entusiasmato. Troppe ripetizioni, dialoghi banali, non tutto è credibile. Una storia che si fa leggere e scoprire, ma non il libro dell’anno né della vita.

Mi aspettavo molto di più. Ero troppo carica e sulla scia del grande successo che ha avuto ero pronta a innamorarmi di questa storia e a divorarlo con più convinzione. È un libro molto scorrevole certo, ha un ritmo incalzante e si legge velocemente, soprattutto all’inizio e alla fine, perché nella parte centrale rallenta un po’. Penso che sia un testo troppo lungo, poteva benissimo essere sfoltito di diverse pagine. I dialoghi sono spesso banali e mancano di forza, di mordente. La storia è poco credibile a tratti melensa, alcuni personaggi sono davvero fastidiosi. La verità non viene mai a galla, è un continuo rimandare, ma quando tutto sembra ricomporsi c’è qualcosa che destabilizza e lascia con l’amaro in bocca, che disturba e che non convince completamente. È una bella storia con un grande potenziale, perché si fa leggere ed è interessante, ma raccontata in maniera ridondante e che non ti lascia granché dentro al di là della trama in sé. Dopo tutte quelle pagine è inevitabile che dispiaccia lasciare i personaggi e che poi manchino un po’, ma non è un libro memorabile. Non nasce chissà quale empatia con i protagonisti. Senza dubbio è stato più faticoso leggerlo a causa della suddivisione in tappe per il gruppo di lettura che si è protratto nel tempo e che quindi ha rallentato il tutto, amplificando i difetti del libro.

Per concludere io lo consiglio, ma con riserva. Per una lettura senza pretese, che vada al di là dello stile e della scrittura in sé, se si è alla ricerca di un libro godibile e piacevole a cui appassionarsi può essere una buona scelta. Dopotutto è una storia che stuzzica la curiosità, da finire in poco tempo nonostante la mole.

Ho deciso di lasciarvi con questa citazione, una di quelle che mi ha colpito maggiormente e che riguarda ovviamente la mia passione: Marcus chiede al suo Professore Harry di dargli consigli di scrittura, lui risponde parlando di libertà. Trovo la cosa molto bella perché ho sempre associato la scrittura al concetto di libertà, io che scrivo fin da quando ero bambina e che non potrei smettere. So che scrivere rende liberi, è un atto di estrema autonomia e di emancipazione. Tutto quello che scriviamo ha a che fare con il nostro arbitrio, in un modo o nell’altro, indipendentemente dal fatto se qualcuno ci leggerà o meno. Ecco per quanto riguarda i dialoghi tra Marcus e Harry ci sono davvero tanti spunti di riflessione interessanti sull’arte della narrazione e sul mondo degli scrittori.

« “Insomma, Harry, come si diventa uno scrittore?”

“Non dandosi mai per vinti. Sai, Marcus, la libertà, l’aspirazione alla libertà, è una guerra in sé. Noi viviamo in una società di impiegatucci rassegnati e, per uscire da questa trappola, dobbiamo lottare al tempo stesso contro noi stessi e contro il mondo intero. La libertà è una continua lotta di cui abbiamo una percezione molto limitata. Io non mi darò mai per vinto.”»

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